Perché è il digitale il responsabile della crisi kazaka

Il conflitto russo-ucraino che sta monopolizzando l’attenzione mediatica non deve far dimenticare che i conflitti in atto in altre regioni del globo, in forme e con modalità differenti, non sono spariti. Per esempio, la crisi kazaka, che, repressa nel sangue solo poche settimane fa, ha insanguinato la repubblica ex sovietica, non rivela solo la difficilissima condizione sociale del Paese ma anche la sete di criptovalute speculative

Solo pochi mesi fa il mondo si è interessato alla crisi del Kazakistan in maniera diversa rispetto a quanto ha fatto per altri Paesi. La ragione di questa attenzione non è certo un improvviso afflato di vicinanza con la sofferenza di un popolo. Il punto è che le implicazioni geopolitiche di quanto è avvenuto nella regione asiatica si dispiegano non solo sullo sviluppo macroeconomico (vedi la centralità del territorio kazako per lo sviluppo della cosiddetta “via della seta”) ma anche sul settore delle criptovalute e delle tecnologie legate alla blockchain.
L’incremento della richiesta di energia da parte di questo mondo è divenuto ormai un fattore geopolitico assoluto. Soprattutto dopo le decisioni prese negli ultimi mesi e che riguardano l’intero processo tecnologico del mondo. Non ultimo, il tema del surriscaldamento globale e i carichi di CO2 attribuiti ai vari Paesi e che in realtà divengono solo delle “esternalizzazioni” verso altri territori di quote di produzione necessarie al funzionamento delle economie avanzate.
L’universo dei bitcoin – come calcolato dal Center for alternative finance – comporta l’emissione di 36 milioni di tonnellate di C02 . Una quota pari a quella di alcuni Paesi.
Che la situazione sociale del Kazakistan fosse precaria era una informazione nota da tempo. Che precipitasse per gli equilibri digitali del nuovo mondo globale legato alla blockchain non era prevedibile (almeno ragionando con gli schemi del passato).
Nei mesi scorsi, infatti, la Cina aveva deciso di eliminare i sistemi di criptovalute ad eccezione di quello statale. Nel provvedimento era incluso il divieto di effettuare il cosiddetto mining delle blockchain sottostanti (la tecnologia su cui si basano le criptovalute e che per le transazioni necessita di una forte capacità di calcolo informatico – chiamato appunto mining – reso disponibile da veri e propri centri di calcolo che vivono attraverso queste funzioni).
La Cina, fino a quel momento, era il primo territorio per capacità di mining nel mondo. Il Kazakistan il secondo. I due Paesi non condividono solo un confine ma anche una sorta di scambio di popolazioni conseguente alla
contiguità tra i territori. Da un lato, il territorio kazako vede una parte della popolazione uiguri sul proprio suolo; dall’altro, una fetta di popolazione kazaka vive sul territorio cinese.
I confini, come si sa, non dividono le popolazioni in maniera netta (forse solo in Europa – dove nasce la teoria politica dello Stato-nazione – possiamo identificare i confini con i popoli ). Nella fattispecie storica, la decisione della Cina di mettere al bando le tecnologie della blockchain sul proprio territorio ha spinto alla migrazione verso il Kazakistan, ove esistevano già le tecnologie, le basi logistiche e il know-how. In particolare, nella città di Almaty.
Si sa che il processo di mining richiede grosse quantità di energia (sia per il calcolo sia per il raffreddamento degli ambienti necessari a ospitare gli impianti) e che la domanda di energia da parte di questo comparto aveva messo in crisi l’intero sistema produttivo e distributivo del Paese già dalla scorsa estate. Gli operatori del settore avevano
avvertito che il sistema energetico del Paese non era in grado di soddisfare così tanti “minatori digitali” assetati di potere (economico e energetico) che lasciavano la Cina.
Le difficoltà di approvvigionamento hanno visto i gestori della rete limitare la potenza alle operazioni di mining informatiche per privilegiare l’uso industriale e sociale, ostacolando gli interessi delle aziende impegnate nella grande caccia ai “Bitcoin&C.”. Questa la miccia reale della rivolta kazaka e questo il grumo di interessi che sta sfruttando la grave situazione sociale sottostante e sulla quale contano gli ispiratori della protesta per avere una
base di massa.
Non è un caso che, questa volta, anche in Occidente si parli apertamente di gruppi oscuri armati che capeggiano e guidano la battaglia contro il governo. Scopo reale e primario di questa rivolta non è quindi l’equità sociale ma la realizzazione di un territorio a gestione “autonoma” al servizio del grande circo degli interessi legati all’uso delle criptovalute speculative.
Questo non toglie che la condizione sociale sia critica e che il Paese necessiti di riforme e di un nuovo livello di equità ma occorre comprendere che la crisi kazaka è stata innescata dalle dinamiche legate allo sviluppo del mondo digitale e rappresenta probabilmente la prima rivolta sociale che poggia le sue motivazioni sulle necessità di sviluppo del nuovo mondo delle criptovalute.

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