Premi Nobel per la pace, minacce nucleari e grandi donne di scienza

In giorni nei quali lo spettro di un conflitto globale con l’impiego di armi nucleari è tornato e continua ad aleggiare come non accadeva dalla guerra fredda, ci piace tornare a parlare di Premi Nobel e di come il Comitato di Oslo abbia conferito l’ultimo Nobel per la pace ai sopravvissuti all’attacco atomico che incenerì Hiroshima e Nagasaki. Uomini e donne che dal 1956 si sono riuniti nel collettivo Nihon Hidankyo e che si battono per un mondo libero da armi nucleari. A quasi 80 anni dall’attacco atomico, il premio suona come un monito alla comunità internazionale. La situazione a Gaza – nonostante la fragile ma preziosa tregua entrata in vigore negli ultimissimi giorni –  è “come il Giappone di 80 anni fa”, ha denunciato il gruppo di attivisti, che ha puntato il dito anche contro Vladimir Putin.
Setsuko Thurlow, oggi novantaduenne, aveva 13 anni quando fu salvata dalle rovine di Hiroshima. I sopravvissuti erano come “una processione di fantasmi”, con la carne bruciata che pendeva dalle loro ossa, aveva raccontato nel 2017 da ospite d’onore della cerimonia del Nobel per la Pace, che quell’anno era stato vinto proprio dalla Campagna internazionale per l’abolizione delle armi nucleari.
La preoccupazione sollevata da Oslo è che il “tabù nucleare” internazionale in questi ultimi anni sia stato messo in discussione. In questo senso, il “premio di quest’anno serve a rinnovare la necessità di sostenere questo tabù”. Ed è un richiamo alla “responsabilità”, che si rivolge alle “potenze nucleari” che secondo un recente rapporto dello Stockholm International Peace Research Institute stanno modernizzando i loro arsenali alla luce delle crescenti tensioni geopolitiche. Se una di queste potenze dovesse valicare il Rubicone dell’atomica, il rischio è quello di una “guerra nucleare” che “potrebbe distruggere la nostra civiltà”, è l’allarme del Comitato per il Nobel.
Il premio ai sopravvissuti di Hiroshima e Nagasaki è anche l’occasione per parlare di Katsuko Saruhashi (Tokyo, 1920-2007), la scienziata che ha scritto che “l’obiettivo della scienza è scoprire le verità scientifiche e utilizzarle per migliorare il benessere dell’umanità”. Laureata in fisica, con un dottorato in chimica, prima donna a essere eletta nel Consiglio della scienza giapponese, è stata la ricercatrice che, occupandosi delle ricadute radioattive negli oceani, ha fornito strumenti a chi, come i vincitori di questo premio Nobel, si è opposto nel suo Paese al proliferare delle prove nucleari.
Per descrivere il suo lavoro facciamo riferimento a quello che Cristina Mangia e Sabrina Presto, due ricercatrici del Cnr che da tempo si occupano anche di questioni ambientali e di salute pubblica, scrivono nel loro Scienziate visionarie, appena uscito per Dedalo.
Nel 1954, un peschereccio giapponese, navigando a 161 km a est dall’atollo di Bikini nell’Oceano Pacifico, si trova esposto alla pioggia radioattiva prodotta da una bomba all’idrogeno fatta esplodere nell’atollo dagli Stati Uniti. I membri dell’equipaggio si ammalano e uno muore dopo qualche mese. Qual è la composizione delle polveri con cui sono venuti a contatto i marinai? Ci sono tracce di uranio 237 e plutonio 239 ma è estremamente difficile misurarle e solo dopo qualche tempo e molte perplessità (la stima nei confronti del lavoro delle donne nella scienza non è stata neppure in Oriente una facile conquista) lo studio delle polveri radioattive della barriera corallina è affidato a Saruhashi che in effetti riesce a dimostrare che le particelle, pur piccole, contengono componenti altamente radioattivi: le chiameranno le “ceneri della morte”. Nonostante i tentativi americani di insabbiare i risultati, il governo giapponese procede a far misurare i livelli di radiazione della zona coinvolta. Le indagini di Saruhashi e del suo team mostrano che “l’acqua contaminata vicino alla superficie si è mescolata con l’acqua in profondità molto più velocemente di quanto si pensasse in precedenza; inoltre, si vede che gli effetti dei test della bomba a idrogeno possono colpire in pochi giorni Paesi molto distanti dal luogo dell’esperimento a causa delle correnti oceaniche ed eoliche che disperdono le particelle radioattive”.
Saruhashi ritiene suo dovere di donna di scienza comunicare anche fuori dallo stretto mondo scientifico i risultati del suo lavoro. Il suo avvertimento non cade sotto silenzio e viene ripreso anche da coloro che in Giappone dopo la Seconda guerra mondiale hanno cominciato a chiedere attenzione alla questione nucleare e spesso una politica anti-nucleare.
Che sia la questione generale della costruzione delle centrali nucleari o quella più particolare dello smaltimento delle scorie radioattive, Saruhashi non manca di far sentire la propria preoccupazione e di battersi perché ad ognuno sia possibile avvicinarsi ai risultati della scienza e alla razionalità che li accompagna.

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