Un terremoto di nome crisi economica

Per il 95% circa della nostra storia evolutiva siamo stati cacciatori senza fissa dimora, legati a migrazioni stagionali dettate da ritmi ed esigenze naturali. Da quando l’uomo ha iniziato a coltivare piante e ad allevare animali, la sua vita è radicalmente cambiata: da nomade a stanziale, da piccoli gruppi che si spostavano compatti a villaggi dove ciascuno, gradualmente, ha iniziato a specializzarsi in compiti come coltivare, allevare, fare la guardia, amministrare. La stanzialità, necessaria per l’agricoltura e in parte per l’allevamento, ha creato un legame profondo e a volte fatale con il territorio: una carestia per un gruppo di cacciatori implica il prematuro spostamento mentre lo stesso evento per una popolazione stanziale vuol dire cambiare vita (o perderla). Per esempio, la grande carestia irlandese della metà dell’Ottocento causò un milione di morti in patria e altrettanti profughi che emigrarono prevalentemente negli Stati Uniti. Fenomeni simili si verificano oggi nell’Africa subsahariana: migrare o morire. I danni degli eventi catastrofici come carestie, terremoti, alluvioni ecc. sarebbero scongiurabili se potessimo prevedere il futuro: magia, superstizione, religione e scienza sono nate anche da questa vana speranza. L’invenzione dei commerci e del denaro ha complicato il quadro, introducendo fenomeni creati dall’uomo ma non completamente sotto il suo controllo, come la dinamica degli scambi economici e finanziari: le fortune di singoli e di intere comunità non sono più quantificate in beni mobili o immobili ma nella disponibilità di denaro. Così come il commercio nel mondo antico era un’attività molto pericolosa, poiché comportava viaggiare non in condizioni di sicurezza ed esponeva a enormi rischi, oggi la finanza moderna offre strumenti per mettere a frutto i propri capitali investendoli in un mercato che però è non meno caotico di un oceano con le sue correnti, le sue tempeste e i suoi naufragi. Le crisi economiche non sono una novità del mondo contemporaneo, ma esistono da quando esistono commerci e investimenti. La creazione di grandi Stati nazionali e di imperi non ha fatto che amplificarne la portata. Anche rimanendo nell’età moderna, dal Settecento in poi ci sono state crisi economiche che hanno causato il declino di nazioni o il loro predominio su certi territori e modifiche sociali irreversibili: per esempio la bolla speculativa della Compagnia dei mari del sud, una multinazionale come diremmo oggi a capitale pubblico-privato, costituita dalla corona britannica per pagare il debito pubblico utilizzando il monopolio del traffico di schiavi dall’Africa alle colonie dell’Oceania e del Sud America. Il valore dei titoli della Compagnia fu gonfiato fino al 1720 per poi sgonfiarsi all’improvviso, in un crollo traumatico e finanziariamente disastroso. All’epoca era ancora vivo Isaac Newton, onorato come un genio universale, al quale era stato chiesto come prevedere con un modello matematico (come lo chiameremmo oggi) l’andamento del titolo e l’eventuale conclusione della crisi. “Posso calcolare il moto degli astri, non la follia degli uomini”, fu la sua risposta. Egli stesso aveva investito oltre 20.000 sterline nei titoli della Compagnia, l’equivalente di 3 milioni e mezzo di sterline odierne. Perché la matematica di Newton non offre aiuto alcuno nella previsione di fenomeni catastrofici come crisi economiche, terremoti o inondazioni? Perché può prevedere con esattezza se fra 100 anni un asteroide sarà in rotta di collisione con la Terra ma non che tempo farà domani o quanto varrà il cambio fra euro e dollaro? Il motivo è che la matematica e la fisica newtoniane sono deterministiche, cioè utilizzano dei modelli che offrono le stesse conclusioni se alimentati con uguali dati. Invece fenomeni come quelli sismici, meteorologici o finanziari sono stocastici, vale a dire che a parità di condizioni iniziali possono dare luogo a esiti diversi. Solo nel XX secolo si è capito che non ha senso tentare di prevedere un singolo fenomeno stocastico. Piuttosto, è utile saper determinare la sua “distribuzione probabilistica”, che ci consente di modellizzare previsioni non sul singolo evento ma sull’andamento generale del fenomeno. Si pensi ai terremoti: non possiamo prevederli ma le loro cause sono note e possiamo usarne la conoscenza per individuare le zone sismiche. Un’informazione che sarebbe sufficiente a evitare vittime e danni se potessimo rendere disabitate quelle zone. Anche se ciò spesso è irrealizzabile, possiamo comunque costruire edifici e infrastrutture tali da sostenere l’impatto di un terremoto anche molto forte, come il Giappone sta a dimostrare. Naturalmente costa di più ma è il costo che serve ad abbattere un rischio e, viceversa: ignorare un rischio può comportare un costo molto maggiore che prevenirlo. Anche nei mercati finanziari ci sono zone più “sismiche” di altre: se ho dei soldi da investire posso comprare dei buoni del tesoro tedeschi, che comportano un piccolo guadagno ma una relativa sicurezza. Se volessi guadagnarci di più, dovrei anche essere disposto a rischiare di più. Per esempio, comprando delle azioni che potrebbero rendere meglio ma anche farmi perdere dei soldi laddove generalmente l’obbligazione ripaga almeno il capitale investito. Come per i terremoti, anche le crisi economiche non sono prevedibili, pur avendo molte cause ben note: l’effetto di una crisi impatta anche su titoli ritenuti più sicuri ma è di certo devastante su quelli più rischiosi. I rischi però si possono gestire: per esempio, potrei decidere (se so cosa sto facendo o qualcuno mi ha convinto che lo so) di comprare un prodotto finanziario che contiene una parte obbligazionaria e una parte azionaria, mettendo al sicuro una parte del capitale ed esponendo a un maggiore rischio l’altra, un po’ come investire nell’acquisto di case in parte su terreni sismici in parte su terreni non sismici. Per gestire un rischio occorre esserne consapevoli e avere un’idea di quanto sia probabile che si verifichi e del suo costo una volta che effettivamente si verifichi. Una volta stimato il costo, potremmo stoicamente decidere di subire il rischio oppure di provare a mitigarlo o, ancora, di trasferirlo su qualcun altro. Quest’ultimo è il caso delle assicurazioni e dei prodotti finanziari “a copertura” (hedging): una banca o un fondo assicurativo si assumono il rischio per noi, ripagando per esempio eventuali danni, ma in cambio di questo esborso ipotetico vogliono ovviamente un pagamento certo al momento della stipula dell’assicurazione. Comprando un’assicurazione trasferiamo il nostro rischio a chi ce la vende e, nella finanza, i prodotti “derivati” hanno la stessa funzione: per questo hanno un costo che siamo disposti a pagare per una prestazione che speriamo di non dover mai richiedere. Mettiamoci dal punto di vista dell’assicuratore: se vendo una copertura rispetto al tasso di cambio euro/dollaro, offro al mio cliente la possibilità di comprare, diciamo fra un anno, 1.000 dollari a un prezzo in euro che stipuliamo ora. Se l’accordo prevede che venderò 1 dollaro contro 1 euro e fra un anno il prezzo di 1 dollaro sarà di 2 euro, dovrò vendere al cliente al doppio del prezzo di mercato. Se, invece, fra un anno il prezzo di 1 dollaro sarà di 50 centesimi, il cliente non comprerà da me i dollari ma direttamente dal mercato a metà del prezzo cui, da contratto, glieli venderei io. In questo secondo caso, il cliente mi avrà pagato un premio assicurativo apparentemente senza avere nulla in cambio ma in realtà ha comprato l’azzeramento della probabilità che il cambio euro/ dollaro gli risulti sfavorevole. La celebre formula di Black-Scholes offre un modo (semplificato) per stabilire quale sia il premio assicurativo di un tale strumento finanziario, che si chiama “opzione europea”: “opzione”, in quanto il cliente fra un anno potrà esercitare il contratto, cioè pretendere di comprare i dollari al prezzo pattuito al momento della stipula del contratto, ma non dovrà farlo se non gli conviene. Per questo deve pagare un costo al momento della stipula del contratto, che abbiamo chiamato per analogia premio assicurativo ma che in questo contesto si chiama “prezzo dell’opzione”. Ovviamente, se per qualche motivo sapessi che fra un anno il cambio euro/dollaro, o di qualsiasi altro valore finanziario come un’azione, avrà un certo valore, potrei comprare un’opzione europea che certamente mi converrà, anzi potrei comprare non una call, che mi consente di coprire un rischio comprando a un prezzo stabilito ora, ma una put che mi consente di speculare vendendo a un prezzo stabilito ora. Qui torniamo al sogno di prevedere il futuro: se sapessi che il prezzo di una certa azione, mettiamo di una compagnia aerea, fra un anno crollerà, potrei comprare oggi una put che impegna chi me la vende ad acquistare da me, fra un anno, un certo numero di azioni a un prezzo fissato oggi. Per esempio, oggi l’azione potrebbe valere 50 euro, io proporrei di venderla fra un anno a 30 euro ma so che per allora il prezzo sarà 10 euro. Comprata la put, fra un anno comprerò azioni a 10 euro dal mercato e le rivenderò a 30 euro al malcapitato che mi ha venduto la put, che sarà obbligato a comprare. Se lo facessi con 1.000 azioni avrei un guadagno netto di 30.000–10.000= 20.000 euro (a meno dei costi di transazione e della put). Utilizzando strumenti speculativi, un’informazione sul futuro ha quindi un valore inestimabile. Se si pensa che sia impossibile, si rifletta sul crollo delle azioni in generale e delle compagnie aeree in particolare l’11 settembre 2001; i terroristi sapevano che in quella data ci sarebbe stato un tale crollo. In modo meno tragico, si immagini la posizione privilegiata di chi ha informazioni su cosa accadrà a una certa azienda rispetto al potenziale guadagno che potrebbe conseguire usandole: è il cosiddetto insider trading, sanzionato nella nostra legislazione a seguito di una direttiva europea del 2003 ma, per esempio, mai esplicitamente sanzionato negli Usa. Alcuni economisti, come il premio Nobel Milton Friedman, hanno sostenuto che non andrebbe considerato un reato e nemmeno una pratica scorretta. Naturalmente una crisi economica tale da rendere insolvente anche chi vende prodotti finanziari, come le banche che “vanno in default”, farebbe saltare le marcature di questo gioco sebbene esistano derivati, molto pericolosi se usati male, che coprono il rischio di credito e consentono di mitigare persino il default di un’azienda. In definitiva, in finanza come in sismologia, non potendo prevedere dobbiamo prevenire. Questo non ci metterà completamente al riparo da una crisi o da un terremoto, ma ci consentirà di sopravvivere all’evento senza danni troppo catastrofici.

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