Guardando Forme uniche della continuità nello spazio (1913) sembra quasi che la scultura stia per mettersi a correre. In quest’opera, Umberto Boccioni – principale teorico del futurismo – materializza i principi del “dinamismo plastico”, che aveva enunciato in La Pittura futurista. Manifesto tecnico (1911), dove aveva definito con chiarezza che il parametro fondamentale del futurismo in pittura è la “sensazione dinamica”. Scrive Boccioni: “Una composizione scultoria futurista avrà in sé i meravigliosi elementi matematici e geometrici che […] saranno incastrati nelle linee muscolari di un corpo”. Grazie alle concavità e convessità che l’autore utilizza in modo sapiente, la scultura comunica l’idea del dinamismo del corpo, andando a superare quella dell’anatomia delle sue parti.
L’attenzione al movimento è probabilmente figlia dello sviluppo vertiginoso che, tra fine Ottocento e inizio Novecento, sperimentarono la scienza in genere e la matematica in particolare. I principi delle geometrie non euclidee, enunciati un secolo prima, sono ormai penetrati nella coscienza degli intellettuali del tempo, portando con sé la carica rivoluzionaria ben riassunta dalla frase del pittore suprematista russo Eliezer “El Lissitzky” (1890-1941): “Lo schiudersi della nuova epoca, annunciata dalla costruzione di nuovi mondi matematici, portava con sé una tentazione e gli artisti non hanno saputo resistere alla sua forza seduttrice”. Per i futuristi, così come per i rappresentanti di molti altri movimenti artistici loro contemporanei (cubisti, suprematisti, costruttivisti, dadaisti ecc.), dopo duemila anni di dogmatismo assoluto rigidamente codificato dall’assiomatica di Euclide, la geometria non euclidea è sinonimo di libertà. E i matematici sono d’accordo. Come vediamo, scritto nero su bianco, negli Eléments de mathématiques del gruppo Bourbaki: “Il matematico dispone di una libertà assoluta nella scelta dei propri assiomi. Tale libertà e l’assenza di un qualsiasi legame con il reale fanno invincibilmente pensare all’arte moderna e, infatti, si può ben dire che, per certi aspetti, la matematica attuale è più vicina a un’arte che a una scienza”. A fare da ponte tra i due mondi è inizialmente l’opera del fisico (oltre che medico e fisiologo) Hermann von Helmholtz i cui articoli, pubblicati tra il 1860 e il 1870 in Germania, Inghilterra, Francia e Stati Uniti, attrassero l’attenzione del pubblico non specialistico cui del resto erano rivolti. Così stimolato, il dibattito si sviluppa sul terreno francese attraverso la Revue philosophique e la Revue de métaphisique et de morale de la France et de l’Etranger, rendendo le idee della geometria non euclidea un soggetto di interesse quotidiano per gli intellettuali di tutta Europa. La ciliegina sulla torta la mette Henri Poincaré che, più o meno suo malgrado, continua l’opera divulgatrice di von Helmholtz. Lo immaginiamo “fisicamente goffo e inetto sul piano artistico”, come lo descrive lo psicologo Edouard Toulouse, mentre imprecando fa buon viso a cattivo gioco: lasciando il proprio subconscio lavorare da solo all’elaborazione dei problemi cui si era dedicato come tutti i giorni “dalle 10 alle 12 e dalle 17 alle 19”, il buon Henri si rassegna a far conversazione con gli intellettuali ospiti dei salotti parigini. La sua idea degli assiomi come convenzioni, secondo cui “una geometria non può essere più vera di un’altra; può solamente essere più comoda”, non poteva che piacere ai suoi amici artisti. “La verità scientifica non è unica, quindi è variabile il suo spirito cercatore”. Ancora: “Neghiamo lo spazio euclideo […] e gli insipidi retta, riga e compasso”. Infine, se non bastasse: “Matematici, vi invitiamo ad amare nuove geometrie e campi gravitazionali creati da masse moventisi con velocità siderali”. Sono parole del fondatore del futurismo Filippo Marinetti, che sembrano quasi parafrasare quelle di Poincaré. Una forte influenza matematica si registra anche sui pittori cubisti: Albert Gleizes e Jean Metzinger scrivono, nel manifesto Du cubisme (1912), che “se si desiderasse collegare lo spazio dei pittori a qualche geometria, bisognerebbe fare riferimento ai sapienti non euclidei, meditare su certi [loro] teoremi”. I cubisti teorizzano anche il precetto, di spirito profondamente anti-euclideo, di non imitare più la natura, sintetizzato nell’imperativo que le tableau n’imite rien, ossia che il quadro non imiti nulla. Sulla stessa linea si trova il fondatore del dadaismo Tristan Tzara (1896-1963) che rincara: “Un quadro è l’arte di far incontrare due linee, di cui si constata geometricamente il parallelismo, su una tela, davanti ai nostri occhi, nella realtà di un mondo trasfigurato che segua nuove condizioni e possibilità”. Nato come protesta contro la società borghese e il conservatorismo, il movimento Dada va effettivamente a nozze con lo spirito sovversivo delle nuove geometrie, che ispirano non solo il poeta Tzara ma anche pittori come Francis Picabia (1879-1953) e, a cavallo tra Dada e Surrealismo, Marcel Duchamp (1887-1968). L’influenza delle geometrie non euclidee pervade l’opera di molti pittori surrealisti. Pensiamo a lavori come L’incontro delle parallele (1935) di Yves Tanguy, Ragazzo affascinato dal volo di una mosca non euclidea (1942) di Max Ernst o La persistenza della memoria (1931) di Salvador Dalí. Quest’ultimo, in particolare, si basa sull’idea di uno spazio che non è né euclideo né iperbolico né ellittico, bensì una “mescolanza” dei tre, codificata con il concetto di “curvatura non costante” che dà vita a figure che “colano” spostandosi nello spazio. Esattamente come le geometrie non euclidee, anche il concetto di quarta dimensione viene percepito come un simbolo di liberazione da parte degli artisti. Specie nell’interpretazione fisica che l’accosta al tempo e quindi al movimento nello spazio, la quarta dimensione ha chiaramente un potenziale applicativo molto più immediato e per questo influenza ancora più direttamente la produzione artistica dell’epoca. In particolare si concretizza nell’opera di Boccioni con la sua idea di dinamismo plastico che vediamo materializzarsi anche in molte delle sue pitture. Tra queste, Dinamismo di un ciclista (1913), Dinamismo di un giocatore di calcio (1913), Elasticità (1912), Rissa in galleria (1910) o la celeberrima La città che sale (1910), sua prima opera pienamente futurista. Altrettanto dirompente sul mondo dell’arte è la nuova concezione di spazio, conseguente alla formalizzazione della matematica e confermata dalle scoperte della fisica del primo Novecento. Definire spazio e tempo non è così banale. In filosofia si tratta di termini usati per definire la struttura della natura. Essi vengono descritti talvolta come i contenitori di tutti gli avvenimenti e i processi naturali, tal altra come le relazioni che collegano questi avvenimenti. La prima idea fa riferimento al modo di pensare di Newton e dei matematici del XVII secolo: lo spazio, in particolare, è un contenitore infinito che ci ospita ed è indipendente da noi. La seconda, invece, deriva dall’idea di spazio della matematica contemporanea, definita da Hausdorff agli inizi del Novecento: una rete di relazioni stabilite tra cose concrete. Continuando a semplificare: uno spazio-contenitore non è minimamente influenzato, nella sua forma, nella geometria e nei comportamenti, da quello che contiene. Lo spazio rete, invece, dipende completamente da quello che è il suo contenuto. Questo secondo punto di vista è quello poi ripreso e certificato dalle osservazioni fisiche, come quelle relative alla deflessione dei raggi di luce: il contenuto in termini di massa-energia dello spazio-tempo ne influenza la geometria. L’effetto di entrambe le concezioni di spazio sull’arte è immediatamente chiaro confrontando tra loro due quadri, il primo di Velasquez (1656) e il secondo di Picasso (1957). In entrambi i casi il titolo è Las meniñas. La differenza tra i due sta proprio nel modo di intendere lo spazio, che da Velasquez a Picasso cambia coerentemente con la modifica introdotta dai matematici e dai fisici. Dice in proposito la studiosa madrilena Capi Corrales: “Nella tela di Velázquez, lo spazio tra la principessa e María Agustina Sarmiento, la fanciulla che le si inginocchia davanti, è un contenitore cubico esterno a entrambe le ragazze, che è parte della stanza in cui si svolge la scena. Una stanza che, come è rappresentata nel dipinto, non cambierebbe per niente se non ci fossero le giovani donne. Invece, lo spazio tra queste stesse figure nel dipinto di Picasso è una rete: il modo in cui ciascuna ragazza vede l’altra, e il modo in cui ciascuna di loro è posta in relazione all’altra, dà luogo alla rete di triangoli che come una struttura spaziale le collega tra loro e con il resto delle figure nella stanza.
La scena è composta da molteplici relazioni locali che Picasso rappresenta attraverso una struttura spaziale composta da figure geometriche di base come triangoli e rettangoli. Potremmo rimuovere le ragazze dalla scena dipinta da Velázquez senza dover cambiare il resto della stanza mentre, se dovessimo fare lo stesso nella tela di Picasso, l’intero dipinto collasserebbe”. Alla luce di questa analisi, vi stuzzicherà capire cosa vuole suggerirci Picasso, chiamando Las meniñas anche un altro quadro, classificato in modo alternativo come Maria Agustina Sarmiento n. 3. Si tratta del terzo di una serie di molti altri, tutti dal titolo Maria Agustina Sarmiento n. X e tutti raffiguranti la damigella alla sinistra dell’Infanta nel quadro di Velasquez. In tutti gli altri dipinti della serie, la damigella è messa più o meno come nel quadro di Velasquez. Qui no. Una possibile spiegazione viene da Bernhard Riemann, o meglio dall’applicazione del concetto di grandezza n-estesa da lui introdotto nella sua celebre conferenza Sulle ipotesi che stanno alla base della geometria. Nel dipinto di Velasquez, tutti gli altri personaggi possono guardare Maria Augustina, vedendola ciascuno da un punto di vista diverso. Picasso, nel realizzare il suo quadro, incolla tra loro i punti di vista locali, ottenendo così una Maria Augustina intera. Fa quindi proprio quel passaggio da locale a globale che consente a Riemann di vedere una qualunque grandezza n-estesa come l’incollamento di molte sue “carte locali”.