Numeri: c’è del folle in Danimarca

Tutti quelli che studiano il francese, all’inizio, si divertono o si disperano – a seconda dell’indole – per i nomi dei numeri. Il fatto che 96 si dica quatre-vingt-seize (cioè letteralmente 4×20 + 16) appare quantomeno bizzarro ai non francesi, compresi i belgi che adottano la più naturale versione “decimale” nonante-six. È il retaggio di un antico sistema di numerazione celtico (o forse preindoeuropeo) in base 20, che quindi considera come “basilari” i numeri 60 e 80 ma non 70 e 90. La passione dei francesi per il 20 è testimoniata anche dai voti scolastici, rigorosamente in ventesimi dalla prima media fino all’università. In passato anche oltre, ad esempio per la valutazione dei docenti. È un metodo del resto sicuramente più coerente di quello italiano per il quale a scuola sono in decimi, alla maturità in centesimi – e prima erano in sessantesimi –, all’università in trentesimi e alla laurea in centodecimi. D’altra parte la numerazione in base 20 era diffusa presso molte altre popolazioni antiche, fra cui quelle precolombiane. Secondo alcuni, il motivo è che questi popoli non usavano in generale scarpe chiuse e quindi tendevano più facilmente a fare i conti usando anche le dita dei piedi oltre a quelle delle mani. Il risultato più pazzesco di questo sistema è la nomenclatura dei numeri in danese. Al confronto, quella francese appare di una linearità invidiabile. Nel danese antico, la numerazione era normalmente decimale. Poi, a un certo punto, verso la fine del Medio Evo, è successo qualcosa su cui i linguisti ancora si interrogano. Fatto sta che è subentrato un sistema vigesimale analogo a quello francese ma più delirante. Fino a 49, anche il danese si mantiene abbastanza mansueto (a parte la pronuncia, un campo minato in cui non ci azzardiamo a entrare): 20, 30 e 40 si dicono tyve, tredive e fyrre. Quindi, per esempio, 25 è femogtyve (femog-tyve, cioè 5+20, dove og vuol dire “e”). Come anche in tedesco, si dice prima la cifra delle unità e poi quella delle decine, ma queste sono bazzecole. Andando avanti, 60 è diventato nel danese tardo-medievale tresindstyve (tre-sinds-tyve, dove sinds sta per “volte”), cioè 3×20, e 80 firsindstyve, cioè 4×20. Proprio come in francese, tranne che i francesi sono più clementi e usano i trattini. Il bello–si fa per dire – arriva con i numeri che non sono multipli di 20, come 50, 70 e 90. Qui, dove il francese risolve sommando ogni volta i numeri da 1 a 20 (da 60+1 a 60+19 e da 80+1 a 80+19), il danese ha scelto invece la strada più impervia, che si può interpretare, a seconda dei punti di vista, come un colpo di genio o una perversione mentale: le frazioni. Cioè 50 = 20×2,5. A complicare le cose, 2,5 non si dice 2+1⁄2 ma -1⁄2 + 3 (anzi, per la precisione “mezzo terzo”, ma sorvoliamo). Risultato: 50 = halvtredsindstyve (halvtredsindstyve). In termini matematici, si può tradurre come (-1⁄2 + 3)x20. Allo stesso modo, 70=halvfjerdsindstyve, che risulta da (-1⁄2+4)x20 e 90=halvfemsindstyve, cioè (-1⁄2 + 5)x20. Arrivati qui, è ovvio il passaggio successivo: quello dei numeri non divisibili per 10 per i quali basta aggiungere la cifra dell’unità. Così, per il 96 di cui sopra, si è arrivati a dire seksoghalvfemsindstyve, cioè 6+(-1⁄2 + 5 )x20. A questo punto, anche i danesi si sono accorti che la cosa si stava facendo piuttosto complicata e saggiamente sono passati alle abbreviazioni eliminando a tappeto il sindstyve (cioè il “x20”), di cui è rimasta solo la s iniziale. Così 50, 60, 70, 80 e 90 oggi sono diventati halvtreds, tres, halvfjerds, firs e halvfems, e 96 si dice semplicemente (?) seksoghalvfems. Facile, no? Tanto facile che le versioni complete sono diventate obsolete, e molti danesi non sanno l’origine dei termini che usano ogni giorno. A qualcuno di loro però verrà da chiedersi come mai halvtreds, halvfjerds e halvfems (cioè 50, 70 e 90) suonano un po’ come “mezzo tre”, “mezzo quattro” e “mezzo cinque”…

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