*Questo brano è tratto da: Paolo Maria Mariano, Vite riflesse in un catino. 23 sogni per Hilbert, Mimesis, 2022
“Gennaio 1933: finisce nei fatti la Repubblica di Weimar con tutto il fervore (in certo qual modo inatteso ma conseguenza del disastro della Prima Guerra Mondiale), la cacofonia e la molteplicità di espressioni che l’avevano caratterizzata. Il nazismo assume il potere e non ammette altro dal suo dettato. L’antisemitismo, che era stato sempre crescente, esplode. Hausdorff non fu immediatamente colpito dalle leggi discriminatorie perché era entrato a servizio dello Stato prima del 1914. Tuttavia interruppe le lezioni a causa dell’attivismo studentesco: gli alunni erano indottrinati dal partito e portavano nelle strutture dell’ateneo quelle idee, scardinando l’insegnamento dal basso, umiliando senza avere ostacoli chi non era organico alle idee del nuovo regime; l’umiliazione – si sa – porta frustrazione, paura, ansia, per lo meno. Hausdorff e la sua famiglia non ne furono immuni. Nel 1934 Hausdorff prestò forzoso giuramento al nuovo regime. Anche questo gesto di sottomissione fu vano, per lui come per gli altri. Ciò che si stava sviluppando era la progressiva burocratizzazione del genocidio; era una macchina con ingranaggi oliati e senza freni propri, lanciata in discesa. Nel gennaio 1935, nuove leggi costrinsero Hausdorff a lasciare l’insegnamento. Si ritirò definitivamente dall’università il 31 marzo 1935, nel silenzio della sua istituzione. Continuò comunque a lavorare: sono di quel periodo la versione aggiornata del Grundzüge der Mengenlebre e sette articoli scientifici che non poté pubblicare in Germania e che finirono su due riviste polacche. Poi ci fu la Reichskristallnacht, la Notte dei Cristalli, tra il 9 e il 10 novembre 1938, un pogrom scatenato dopo l’attentato a Parigi del diciassettenne Herschel Grynszpan, ebreo, contro il diplomatico Ernst Eduard vom Rath, ventinovenne. Hausdorff si decide: ora vuole andare via dalla Germania, dal suo mondo, da quell’atmosfera ormai degradata rispetto a quella respirata nei suoi anni migliori; scrive a Richard Courant, che era stato allievo e assistente di Hilbert e che era emigrato alla New York University, e chiede una possibilità di lavoro di ricerca negli Stati Uniti. Ha settant’anni. Charlotte ne ha sessantacinque e non è in buona salute. Courant coinvolge Hermann Weyl a Princeton, anch’egli ex allievo di Hilbert, e Weyl fa lo stesso con John von Neumann, un altro della scuola Gottinga. Descrivono Hausdorff come “un uomo dalla prospettiva intellettuale universale dotato di grande cultura e di fascino”. Non ebbero successo. Il clima diventava sempre più pesante. Passò un anno e poco più. Nel 1941 per Hausdorff fu programmato l’internamento. Intervenne l’università di Bonn. Un amico si preoccupava per lui, un matematico e uno storico della matematica: Erich Bessel-Hagen, la cui prima porzione del cognome, Bessel, era stata acquistata dal padre perché non sparisse il nome di un altro grande matematico suo parente, Friedrich Wilhelm Bessel, della prima metà del secolo precedente, scomparso senza lasciare prole. L’intervento dell’istituzione permise alla famiglia di Hausdorff di rimanere nella propria abitazione. In quell’ottobre gli Hausdorff devono cucirsi sui vestiti la stella gialla. Alla fine dell’anno sanno che saranno deportati a Colonia, poi, nel gennaio 1942 l’informazione cambia: si va a Endenich e – suppone Bessel-Hagen, che non può più nulla per l’amico – in Polonia, verso una fine certa. Felix si procura un barbiturico – il Veronal – con non poche difficoltà. Scrive a un legale ebreo, Hans Wollstein, che non andrà a Endenich, che non è certo la fine (Endenich). Parla dell’ansia che gli eventi hanno procurato. Si scusa per la sua diserzione dalla vita. Gli augura tempi migliori. Wollstein sarà ucciso ad Auschwitz. Nella notte del 26 gennaio 1942, Felix, Charlotte e la sorella di lei, Edith Pappenheim, che viveva con loro, ingeriscono il Veronal. La fine segue.
LA DIMENSIONE DI UN MATEMATICO
La tragica fine raccontata da Paolo Maria Mariano nelle pagine del suo Vite riflesse in un catino riguarda uno dei più importanti matematici dei primi decenni del Novecento, suicidatosi assieme a sua moglie Charlotte e alla cognata. Felix Hausdorff era nato nel 1868 a Breslavia (oggi in Polonia) e si era poi laureato a Lipsia, dove cominciò la carriera accademica che lo portò successivamente a Bonn, Grefswald (nella Germania del Nord, sul Mar Baltico) e poi ancora a Bonn. Nella storia della matematica, il nome di Hausdorff è ancora oggi ricordato come quello di uno dei fondatori della topologia: l’individuazione nell’insieme preso in esame di una famiglia di particolari sottoinsiemi, chiamati insiemi aperti, porta a definire il concetto di intorno di un punto e a tradurre l’idea di punti vicini a lui senza dover necessariamente ricorrere alla nozione di distanza. È quanto Hausdorff descrive in una delle due sue fondamentali opere, i Grundzüge der Mengenlehre del 1914. L’altra importante pubblicazione è del 1919, l’articolo Dimension und äusseres Mass, con la definizione di quella che sarà chiamata misura di Hausdorff. La sua definizione permette in qualche modo di misurare insiemi anche molto complicati e frastagliati e persino quei frattali che nel mondo matematico non erano stati ancora suggeriti. Porterà anche a definire la cosiddetta dimensione di Hausdorff. La dimensione di un insieme è il numero di parametri indipendenti necessari per localizzare un punto dell’insieme. Per esempio, il piano è un insieme di dimensione 2 perché, per localizzare un punto, bisogna in un sistema cartesiano conoscerne ascissa e ordinata. La dimensione di Hausdorff è un numero non negativo, ma non necessariamente intero, che estende il concetto di dimensione a insiemi più complicati del piano. Hausdorff si occupò anche di insiemi parzialmente ordinati (con il cosiddetto principio di massimalità) ma forse, per chi non è matematico, la sua personalità emerge ancora con maggior evidenza se si aggiunge che, oltre a diventare un ricercatore di primissimo piano, solo le pressioni del padre gli impedirono di avviarsi alla carriera di concertista e compositore e che, con lo pseudonimo di Paul Mongré, fu scrittore e autore di testi teatrali che ebbero parecchie rappresentazioni e repliche. Aveva però il torto di essere ebreo. Già a Lipsia, all’inizio del secolo, la sua carriera accademica era stata ostacolata a causa della “sua fede giudaica”. Poi, con la fine della repubblica di Weimar, che aveva retto la Germania dopo la sconfitta della prima guerra mondiale, e l’ascesa al potere di Hitler nel ‘33, la situazione precipitò fino ad arrivare al tragico epilogo del 26 gennaio 1942.
ELOGIO DELLA CONOSCENZA
Un ciclo di conferenze tenute a Berlino da un anziano fisico-matematico costituisce lo spunto stilistico che consente a Paolo Maria Mariano di sviluppare il racconto di Vite riflesse in un catino. 23 sogni per Hilbert. Il “vecchio” – così lo indica l’autore – era ormai fuori dai giri accademici ma aveva accettato l’invito che quasi inopinatamente gli era arrivato dall’università Humboldt e da una Fondazione culturale che finanziava il ciclo di conferenze. Quell’anno ne sarebbe stato lui il protagonista! Aveva anche indicato un titolo “strano”, come Frammenti d’Europa, con il sottotitolo di Vita come ricerca, ricerca come vita. La prima parte è allora il resoconto di queste conferenze o, meglio, la traccia lasciata da alcuni loro spunti che permettono al “vecchio” e all’autore, che in lui si rispecchia, di parlare di alcune tra le pagine più interessanti della storia della matematica del Novecento. Di Hilbert e dei suoi 23 problemi, anzitutto. Ma anche di Klein, di Hausdorff, di Boltzmann, di Emmy Noether, di Gottinga e in generale della matematica tedesca. E di come andrebbe raccontata la storia della matematica, senza che “il divulgatore ceda alla tentazione di mitizzare ciò che racconta, facendone solo l’apologia, per ragioni d’ideologia o di autopromozione”. Ma Vite riflesse in un catino non è un libro di storia della matematica. Neanche camuffato. E questo vale a maggior ragione per la sua seconda parte, in cui il viaggio europeo dell’autore (tra Anversa, Polonia, Budapest, Vienna e Parigi ma con accenni anche a Spagna e Portogallo) e la storia dell’Europa si intrecciano con i seminari del vecchio professore e la sua fiducia che sia la cultura il vero collante del continente. Il libro è invece un percorso di divagazioni per l’Europa, come si legge nel risvolto di copertina, “una narrazione corale e al tempo stesso intima”. Sulle falsità del mondo accademico, sul valore dell’insegnamento, sul potere, sulla dignità, contro molti aspetti della nostra convivenza civile. Una denuncia che coinvolge il lettore, che sia d’accordo o meno con l’autore e il vecchio professore. Paolo Maria Mariano è docente di meccanica teorica all’università di Firenze e su temi di meccanica teorica coordina un gruppo di ricerca presso il Centro “De Giorgi” della Normale di Pisa. Termina il suo libro con un’immagine della madre che, da adolescente, “aveva ogni mattina qualche chilometro dinanzi a sé per andare a scuola” e lo percorreva in bicicletta. “Pedalava senza pensare che sarebbe stata la prima donna della sua generazione nella sua città a conseguire la laurea, e lo fu in giurisprudenza, e che quel traguardo sarebbe costato fatica […]. Ed è anche il rispetto per quella pedalata che, tra le altre cose, spinge sempre il mio modestissimo estro a non scivolare nel vaniloquio dell’enfasi, semmai a esercitare la ragione, a cercare di conoscere quello di cui parlo e di cui scrivo […] o, altrimenti, tacere”.