Edoardo Amaldi: la coscienza di uno scienziato

Edoardo Amaldi (1908- 1989) è stato uno dei più importanti fisici italiani del secolo scorso. Con Enrico Fermi e gli altri componenti dell’Istituto di via Panisperna partecipò alle ricerche di fisica nucleare che valsero il premio Nobel nel 1938 a Fermi, del quale Amaldi fu dapprima allievo e poi amico e stretto collaboratore. Negli anni della guerra rimase a Roma, unico del gruppo originario, e scelse di restare in Italia anche alla fine del conflitto facendosi carico della riorganizzazione della ricerca in fisica e partecipando da protagonista alla creazione di nuove istituzioni, in Italia e in Europa. Sarà tra i fondatori del Cern a Ginevra e tra i promotori della nascita dell’Esa, l’Agenzia spaziale europea. Coinvolto nel movimento Pugwash fin dalla sua costituzione, è stato un attivo sostenitore del disarmo nucleare e della cooperazione scientifica internazionale. I suoi scambi epistolari degli anni a cavallo della seconda guerra mondiale, con gli amici e colleghi coinvolti come lui nelle ricerche fisiche, gettano nuova e diretta luce su quel drammatico periodo e sull’atteggiamento tenuto da quegli scienziati che si trovarono, si può ben dire, al centro della storia. Il pensiero va subito alla realizzazione della bomba atomica. L’uso a fini militari della ricerca scientifica, e della fisica nucleare in particolare, è uno dei punti centrali intorno a cui ruotano le memorie di Amaldi e le riflessioni che i fisici italiani, sulle due sponde dell’Atlantico, si scambiarono alla fine della guerra dopo l’esplosione degli ordigni atomici sulle città giapponesi. Tra quelli che erano emigrati in America c’era chi aveva lavorato a Los Alamos (Enrico Fermi, Emilio Segrè, Bruno Rossi) e chi aveva scelto di non essere coinvolto, come Franco Rasetti, e dalle lettere che si mandano tra loro e con gli amici rimasti in Italia (Edoardo Amaldi, Enrico Persico, Gian Carlo Wick) emergono differenti e spesso contrastanti valutazioni di quanto è avvenuto e delle risposte da dare agli interrogativi sulle responsabilità da assumere. “Dalla lettura dei giornali di qualche settimana fa avrai probabilmente capito a quale genere di lavoro ci siamo dedicati in questi ultimi anni. È stato un lavoro di notevole interesse scientifico e l’aver contribuito a troncare una guerra che minacciava di tirar avanti per mesi o per anni è stato indubbiamente motivo di una certa soddisfazione” (Fermi ad Amaldi). “Avrete sentito degli ultimi pervertimenti della fisica; quello che ancora aggiunge tristezza, oltre all’orrore generale della cosa, è che a questo pervertimento hanno lavorato attivamente varie persone di conoscenza… . Da certi indizi credo di capire che le stesse persone che hanno lavorato in quei problemi ora si trovano a disagio, ma se è così non hanno altro che quello che hanno meritato” (Rasetti a Wick). “Io non vedo come si possa esprimere un giudizio di condanna, così severo come mi pare tu abbia in mente, su quei nostri amici che hanno partecipato al lavoro. Evidentemente si sono presa una grossa responsabilità; ma se non l’avessero fatto non si sarebbero assunta una responsabilità altrettanto grande? Oggi sappiamo che gli altri non sarebbero comunque arrivati in tempo; ma questo non lo si poteva sapere prima” (Wick a Rasetti). Riflettendo su quegli eventi a trent’anni di distanza, Amaldi non si sottrae alla responsabilità di prendere posizione: “Un fisico negli Stati Uniti poteva rifiutare di collaborare sapendo che i nazisti avrebbero potuto conquistare il mondo proprio servendosi di questa arma? Io non mi sono trovato di fronte a questo drammatico dilemma ma penso che, se mi ci fossi trovato, dopo profonde e sofferte considerazioni su quale fosse il mio dovere morale di uomo invitato a decidere se collaborare alla difesa delle democrazie intese allora in senso molto lato, o rinchiudermi nella mia sfera privata non facendo nulla per combattere la dittatura, avrei alla fine optato per la prima soluzione”. Nelle memorie lasciateci da Amaldi e nella sua corrispondenza c’è comunque molto di più. C’è l’avventura scientifica e umana dei ricercatori trovatisi all’improvviso divisi sui fronti opposti della guerra e ci sono le descrizioni delle condizioni materiali di vita nelle città e nelle università durante gli anni più duri del conflitto, sotto l’occupazione nazista. Ci sono le conseguenze dell’impatto delle leggi razziali sulla comunità scientifica italiana e i conti fatti (o non fatti) nell’immediato dopoguerra con il lascito di quelle leggi e con coloro che le avevano sostenute e ne avevano tratto vantaggio. Ci sono le differenti percezioni, nel Paese e fuori, dei mutamenti che stavano investendo la società italiana dopo il crollo del fascismo con i primi governi dell’Italia liberata: “Qui come sai abbiamo fatto la repubblica, alla quale io ho dato il mio voto, ma senza farmi troppe illusioni. Il suo primo atto è stata una pazzesca amnistia che rimette in circolazione ladri, spie fasciste, rastrellatori e torturatori, eccetto quelli le cui torture erano “particolarmente efferate” (sic). Viene proprio il rimpianto di non aver fatto, a suo tempo, il torturatore moderatamente efferato. L’epurazione, come forse saprai, si è risolta in una burletta, e fascistoni e firmatari del manifesto della razza rientrano trionfalmente nelle Università” (Persico a Rasetti, luglio 1946). Emergono la graduale costruzione di un tessuto connettivo tra la comunità scientifica e gli ambienti industriali in vista della ricostruzione e la ricreazione di una rete transnazionale di collaborazioni scientifiche in Europa, nel clima della guerra fredda ormai alle porte. E si chiariscono le motivazioni alla base delle scelte non semplici indotte dalla centralità acquisita dalla fisica nucleare negli Stati Uniti, tra la spinta all’emigrazione verso una realtà molto più appetibile e il senso di responsabilità nei confronti del proprio Paese. “Wick ha avuto un invito per Notre Dame dove andrà per marzo. Sono contento per lui ma qui la situazione diventa sempre più sconsolante; la soluzione di andarsene del tutto è egoisticamente la migliore ma mi sembra un poco un peccato lasciare qui tutti i vari ragazzi ora che la guerra è finita e che c’è qualche speranza di riprendere i contatti con voi e gli altri fisici del mondo”. (Amaldi a Fermi, dicembre 1945). Quasi un anno più tardi, in procinto di imbarcarsi a New York per rientrare in Italia al termine di un viaggio negli Stati Uniti durante il quale aveva maturato la definitiva decisione di rimanere nel suo Paese, Amaldi comunica per lettera a Fermi i risultati appena ricevuti dall’Italia dell’esperimento che tre dei “ragazzi”, Marcello Conversi, Ettore Pancini e Oreste Piccioni, avevano effettuato a Roma. Quei risultati, il cui significato apparirà in tutta la sua portata nelle settimane successive, apriranno la strada a una nuova fase della ricerca sulla fisica delle particelle elementari. All’inizio della ricostruzione, e nonostante le condizioni del Paese, una tradizione di ricerca di qualità, che appariva al collasso pochi anni prima, mostra ancora i suoi frutti.

I FISICI E LA STORIA

Tra le carte di Edoardo Amaldi figura un suo manoscritto intitolato Il collasso e la ricostruzione in cui vengono descritti gli eventi che vanno dalla partenza di Fermi nel dicembre del 1938 all’inizio della ricostruzione postbellica. Il testo, che nelle intenzioni dell’autore doveva essere parte di un ampio libro sulla storia della fisica a Roma, è rimasto inedito fino al 1997 quando è stato pubblicato a cura di Giovanni Battimelli e Michelangelo De Maria, insieme a una selezione di lettere scambiate all’epoca tra i vari fisici protagonisti delle vicende narrate. Viene ora riproposto dagli stessi curatori con l’ulteriore contributo di Adele La Rana, corredato da una raccolta di corrispondenza molto più ricca di quella presente nell’appendice all’edizione originale.

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