Oggi siamo abituati a pensare alla matematica come a una disciplina che ha un linguaggio composto di simboli specifici e indiscutibili. Tanto che alcuni di questi simboli hanno valicato i confini della disciplina e fanno parte a tutti gli effetti del nostro senso comune: basti pensare al simbolo di infinito o alla lettera x usata nella sua accezione di incognita per indicare qualcosa di sconosciuto. Eppure, la matematica non è nata corredata di questo linguaggio. Anzi, agli albori della sua storia era completamente diversa. I simboli, al pari di ogni altro linguaggio, sono entrati a far parte dell’uso comune come una convenzione dopo mediazioni, evoluzioni e modifiche dettate da esigenze pratiche o mosse da interessi personali. La scrittura moderna di molti concetti antichissimi, a partire dalle quattro operazioni per arrivare alla scrittura di esponenziali, passando dall’idea di equazione e di incognita, venne introdotta a partire dal XV secolo nonostante le dimostrazioni formali di questi risultati esistessero già da molto tempo. Come possono esistere le dimostrazioni senza il linguaggio necessario a esporle? Il fatto è che prima dell’uso dei simboli la matematica era una disciplina retorica. Dimostrazioni e risultati venivano espressi attraverso parole e frasi, risultando a tutti gli effetti delle descrizioni verbali. Dunque, se il linguaggio retorico accompagnò la matematica per secoli, che cosa spinse l’evoluzione verso un linguaggio simbolico? Essenzialmente, la comodità. Il XV secolo è stato un periodo storico particolarmente significativo per questo processo per due ragioni fondamentali: la prima è l’avvento della stampa a caratteri mobili, che introdusse dei nuovi problemi pratici riconducibili al numero e al tipo di caratteri a disposizione dei tipografi. La seconda è un riscoperto interesse verso l’algebra che portò a studi di un buon livello di astrazione. Ora, pensiamo di fare algebra senza simboli, di descrivere a parole delle equazioni e la risoluzione di un’equazione di secondo grado dovendo spiegare che abbiamo una radice quadrata di una somma tra un quadrato di un coefficiente dell’equazione e il quadruplo del prodotto degli altri due coefficienti (senza avere lettere per indicare di quale termine stiamo parlando). Si tratta di un processo lungo e complesso: per redigere un trattato manoscritto sulla risoluzione di equazioni di secondo grado, il termine corrispondente al moderno “radice quadrata” deve essere ripetuto un numero incredibile di volte. Allora, qualche matematico o copista tedesco della fine del 1400 cercò una soluzione per semplificarsi la vita e si ritrovò a indicare la radice con un punto prima del radicando: un punto per la radice quadrata, due per la radice quarta e tre per la cubica. Idea interessante, che impiegò meno di un secolo per evolvere, sempre a opera di autori ignoti, in un simbolo un po’ più articolato: un punto annerito con una coda verso l’alto che piegava verso destra (qualcosa di simile a una nota musicale), posto sempre prima del radicando. Un simbolo più chiaro e soprattutto più evidente all’interno di un manoscritto. Tuttavia, questo simbolo metteva in luce un problema nella notazione precedente: usare la ripetizione dei punti per indicare l’indice della radice era poco efficiente e quindi serviva un simbolo aggiuntivo per indicare il grado. Vennero così aggiunti degli elementi specifici per gli indici, posti alla destra del radicando. Contemporaneamente, però, in Italia alcuni matematici di rilievo, tra cui Luca Pacioli, avevano adottato come notazione di radice il simbolo R, riconducibile al termine res o rex, latinizzazione della parola cosa. Il simbolo aveva anche una scrittura corsiva e un passaggio alla lettera minuscola, forma che è estremamente simile al moderno simbolo di radice. La storia italiana però non finisce qui. Tra il 1500 e il 1600 in Italia si consumò una guerra matematica senza esclusione di colpi: Girolamo Cardano, Scipione del Ferro e Niccolò Tartaglia si ritrovarono immersi in una disputa sulla risoluzione di equazioni di terzo grado e superiori. In questo modo portarono alla luce una nuova esigenza: bisognava indicare in modo chiaro che la radice operava su più termini e che si potevano avere radici di radici. Gli italiani scelsero una soluzione semplice. Aggiunsero una L rovesciata che abbracciasse tutti i termini sotto radice, corredata dal simbolo cs, abbreviazione del termine latino comunis: una parziale descrizione simbolica per agevolare la comprensione del lettore. In questo contesto si affermò l’opera che pose ordine definitivo in questa notazione: nel 1525 venne dato alle stampe il Die Coss, scritto da Christoff Rudolff, in cui venne adottato un simbolo compatto per indicare la radice, in tutto e per tutto simile a quello moderno (√), a cui doveva solo essere associato il radicando, senza altri pezzi ausiliari e abbreviazioni interne. Anche Michael Stifel adottò questa notazione nel suo Arithmetica integra nel 1544 e questo contribuì a diffondere il neonato simbolo dalla Germania in tutta Europa. Ma come indicare un radicando composto da più termini? A Descartes, un secolo dopo, l’illuminazione: in Géométrie (1637) prese la L rovesciata che era stata usata in basso per abbracciare i radicali e la ruotò in modo da collegarla al simbolo di Rudolff. Nasceva così il vinculum, quel trattino che tutt’oggi poniamo sopra a determinati termini e a cui attribuiamo significati diversi a seconda del contesto (nella radice indica i radicandi, ma può indicare il periodo di un numero decimale, il riferimento alla lunghezza di un segmento o una negazione logica). Con il 1637 abbiamo il moderno simbolo di radice? Quasi, manca ancora l’indice. L’idea semplice del numero posto sopra la v di radice entra nell’uso matematico solo a partire dal 1690 grazie al Traitè d’algèbre di Michel Roll e alla conseguente adozione di Leibniz nella sua corrispondenza epistolare. Da questa storia emerge un quadro interessante: tutti i protagonisti citati hanno agito per perseguire specifici interessi personali più che per assolvere a un’ipotetica chiamata alla missione di universalizzare il linguaggio matematico. Tutta la storia dei simboli matematici rispecchia, grosso modo, quest’ottica perché il linguaggio matematico ben si guarda dall’essere una lingua scritta direttamente nella struttura dell’universo. Come ogni altro linguaggio, è una convenzione creata dagli esseri umani per altri esseri umani che risente delle limitazioni pratiche e rispetta tutti gli standard di chiarezza dettati dalla comunicazione.