Ezue su doi – taulins – sul taulin – dal tuart e de la rezon – ai rezon – sul taulin dal – pierde e vinze – e piert (Io gioco su due tavoli; sul tavolo del torto e della ragione, ho ragione; sul tavolo del vincere e perdere, perdo).
È una poesia di Federico Tavan da Andreis, comune montano in Friuli. Visse con lo stigma della follia, forse anche perché era poeta ma, grazie alla Legge 180 del 1978, non trascorse tutta la vita in manicomio.
L’11 marzo è stato il centenario della nascita di Franco Basaglia. Penso che non vi sia introduzione migliore della poesia di Tavan per cogliere il senso della legge di cui fu l’ispiratore: restituire la soggettività, il diritto di esprimersi, a chi era considerato fino ad allora solo un oggetto pericoloso e deviante da controllare.
È urgente riflettere sull’azione politica e sul pensiero di Basaglia. Voleva umanizzare i manicomi ma fece molto di più: gettò le basi per un nuovo umanesimo. Basaglia partì dalla presa di coscienza delle contraddizioni nella nostra società, come quella tra cura e potere, da una cura che fino ad allora consisteva nell’opprimere e distruggere il paziente. Ma non si limitò ad aprire i manicomi, li chiuse definitivamente. Vinse la sua battaglia civile perché riuscì a con-vincere. Da vicino nessuno è normale recitava lo slogan sulle magliette dei Centri di igiene mentale. Allargò a tutta la società l’analisi volta a smontare i meccanismi oppressivi di potere e controllo delle istituzioni e nei rapporti tra le persone. Ci mostrò come troppo spesso le istituzioni nate per proteggere i cittadini li reprimono criminalizzandone i bisogni: quelli del malato mentale, come quelli dello scolaro che non viene promosso. Basaglia ci insegnò che, senza dare la possibilità di una vita autonoma anche a chi è povero, senza emancipare chi è oppresso, non si può curare ma solo continuare a controllare.
Oggi, però, a metà strada tra Gorizia e Trieste, negli stessi manicomi dove operò Basaglia, il suo pensiero è calpestato vergognosamente. A Gradisca d’Isonzo sorge un famigerato Centro di permanenza per i rimpatri (Cpr). Se volete immaginarlo, pensate allo zoo. Le chiamano vasche perché là, dove non ci sono reti o sbarre, c’è plexiglass antisfondamento.
Ogni gabbia collettiva ha una zona all’aperto e una al chiuso. Al loro interno gruppi di persone disperate vivono l’attesa angosciosa di un’espulsione, che forse non avverrà. Alcuni dovrebbero essere cittadini liberi perché hanno già scontato la pena per i reati commessi. Altri sono i capri espiatori di una moltitudine di giovani che la nostra società, mentre si dispera per il calo demografico, respinge e deporta compiacendosi dei propri feroci pregiudizi. L’autolesionismo è l’unica via d’uscita da un Cpr!
Basaglia scrive che nell’istituzione totale la persona, come sul tavolino di Tavan, perde sempre, perché essa non dà mai una risposta ai suoi bisogni. Nemmeno a quelli dei suoi carnefici, aggiungerei.
I Cpr vanno chiusi!