Telmo Pievani: “Sul clima dobbiamo cambiare linguaggio”

Siamo “rane in un paiolo che non si accorgono di finire lentamente bollite”. È un’immagine poco rassicurante ma estremamente efficace, quella con cui il filosofo ed evoluzionista Telmo Pievani descrive gli esseri umani alle prese con il riscaldamento globale nel suo ultimo libro La natura è più grande di noi. “Dovremmo rapidamente adattarci a un mondo da noi stessi stravolto – scrive l’autore – ma non lo facciamo, ci attardiamo, cincischiamo su questioni marginali, perché in fondo non vogliamo capire cosa sta succedendo, non lo interiorizziamo, lo rifiutiamo inconsciamente”. Resta da capire perché siamo arrivati a questo punto, nonostante le allerte lanciate dagli scienziati nell’ultimo mezzo secolo.

Da anni gli esperti ci mettono in guardia sui rischi del cambiamento climatico, eppure i loro messaggi non riescono a fare breccia: come mai?

Tempo fa ho discusso proprio di questo tema con Piero Angela, che ricordiamo tutti con affetto: mi raccontava che la sua prima trasmissione sul cambiamento climatico era andata in onda nel 1973 e già all’epoca usava le stesse parole che usiamo oggi, come innalzamento dei mari e fenomeni atmosferici estremi. Se parliamo di questo problema da 50 anni e la comunicazione non ha ancora sortito effetti tangibili, siamo evidentemente di fronte a un fallimento comunicativo. Non è solo colpa degli scienziati, piuttosto c’è una difficoltà oggettiva nel far passare il messaggio.

Perché è così complicato fare comunicazione su questo tema?

Perché la narrazione del cambiamento climatico è scomoda e controintuitiva. Si tratta di un processo che si manifesta in modo imprevisto e non lineare ed è tutto sommato lento rispetto alla nostra percezione del tempo. Richiede una capacità di visione che va oltre la nostra generazione.

Sono stati commessi errori nella divulgazione?

Dal punto di vista mediatico, quello che non ha funzionato è la monotonia del messaggio. Ogni volta che al tg o sui giornali parliamo di cambiamento climatico lo affrontiamo sempre come un’emergenza, che si tratti di dare la notizia di un’alluvione, di una prolungata siccità o di un iceberg che si stacca. È un errore perché non si tratta di un’emergenza, bensì di un pezzettino di una nuova normalità ampiamente preannunciata e alla quale dovremo purtroppo adattarci nei prossimi anni. Non possiamo fingere di sorprenderci ogni volta, anche perché poi si genera assuefazione nel pubblico e il cambiamento climatico rischia di essere vissuto come qualcosa di ineluttabile. L’altro errore tipico dei media è quello di usare sempre un tono catastrofista e apocalittico. Se tocchiamo solo questo tasto, rischiamo di indurre una reazione di rigetto da parte del pubblico. Saremmo molto più efficaci se riuscissimo a modulare emozioni positive e negative, non solo denunciando il problema, ma suggerendo anche possibili soluzioni che possano dare nuove prospettive e speranze.

Come bisogna cambiare il modo con cui si fa divulgazione sul clima?

Lo dico in chiave autocritica: dobbiamo capire che, per spiegare questo fenomeno, i dati e le evidenze scientifiche sono fondamentali ma non bastano. Dobbiamo trovare nuovi linguaggi. Questa riflessione è in atto anche nei Paesi anglosassoni che hanno una gloriosa tradizione di comunicazione scientifica. Anche loro stanno riflettendo sulla necessità di aggiornare il linguaggio e di usare più creatività. Il cambiamento climatico va raccontato anche attraverso le emozioni, puntando ad esempio su storie di persone, vicende umane che possano rimanere impresse nella memoria e suscitare empatia. Lo si può fare anche attraverso nuovi linguaggi come quello dell’arte, della musica e della letteratura. Qualcosa si sta muovendo in questo senso: da qualche tempo ci sono scrittori, musicisti e registi che stanno affrontando il tema nelle loro opere facendolo entrare pian piano nel nostro immaginario.

La televisione è ancora un mezzo efficace per la comunicazione sul clima?

Penso proprio di sì, per una semplice ragione di cui mi sono accorto facendo il programma La fabbrica del mondo con Marco Paolini. La tv permette di arrivare a un pubblico che non se lo aspetta. Mi spiego meglio: noi facciamo moltissimi progetti di comunicazione, talk, festival, presentazioni di libri ma in quelle occasioni ci rivolgiamo a un pubblico che ci ha già scelto, perché interessato al tema. È un po’ come predicare ai convertiti. Invece in tv, come sui social, si può raggiungere un pubblico molto più ampio. L’importante è continuare a sperimentare nuovi programmi e nuovi linguaggi.

A proposito di social, pensa che rappresentino uno strumento più utile alla buona divulgazione o al negazionismo?

I social sono sicuramente preziosi per fare una buona comunicazione, ma è evidente che i sostenitori di comportamenti antiscientifici trovano nel web una nicchia ecologica perfetta. Si creano gruppi dove sono tutti solidali fra loro e rafforzano le proprie convinzioni entrando in una vera e propria realtà parallela. È un fenomeno preoccupante che però non va sopravvalutato perché per fortuna riguarda un’esigua minoranza: non bisogna dedicarci troppo spazio sui media. Altra cosa sono quegli opinion makers prezzolati che in totale malafede raccontano intenzionalmente bugie incidendo sui comportamenti altrui e sulla salute: è come avvelenare i pozzi del dibattito pubblico e a mio parere andrebbero sanzionati.

Come combattere le fake news?

Fare debunking non è sufficiente: si riesce a convincere solo una parte esigua del pubblico e si rischia di polarizzare lo scontro. Oltre a smentire bisogna anche smontare, mostrare cioè come sono stati costruiti la bufala e i trucchi che ci sono dietro, per dare al pubblico gli antidoti intellettuali per riconoscere prontamente gli impostori e sbugiardarli.

Nonostante errori comunicativi e disinformazione, molti giovani sembrano aver preso coscienza del problema ambientale: che cosa ne pensa?

Mi pare che nei giovani convivano tre sentimenti, spesso contrastanti fra loro. Innanzitutto, la contestazione: è evidente che si sta profilando un conflitto intergenerazionale; lo vediamo nelle nostre famiglie e lo ha messo in luce anche l’ultimo film di Paolo Virzì, Siccità. Poi c’è l’eco-ansia: purtroppo tra i ragazzi, anche i nostri studenti universitari, serpeggia l’idea di non poter fare nulla, accompagnata da una certa rassegnazione. In una minoranza, però, c’è la voglia di superare questa condizione con l’impegno, lavorando a nuovi progetti. Ecco, credo che di fronte a questa situazione dovremmo cercare di ridurre l’ansia e la rassegnazione dei giovani offrendo nuove soluzioni e speranze. Bisogna però evitare ogni forma di paternalismo: stiamo consegnando loro un mondo che è oggettivamente più difficile da vivere. Quindi, non abbiamo alcuna giustificazione nei loro confronti.

La speranza è che anche la politica cominci a interessarsi davvero al cambiamento climatico. Alla vigilia delle elezioni le maggiori forze politiche italiane hanno firmato un accordo per l’istituzione di un organo di consulenza scientifica che supporti il Parlamento e il Governo nella gestione della crisi climatica e ambientale. Crede sia un segnale positivo?

La trovo un’iniziativa giusta. In altri Paesi come Stati Uniti, Gran Bretagna e Germania ci sono da tempo organi scientifici permanenti che dialogano con la politica e l’esecutivo su grandi temi come le biotecnologie e l’ambiente. L’Italia è molto in ritardo da questo punto di vista: c’è voluta la pandemia per capire l’importanza di un dialogo continuo fra scienza e politica. Io però resto pessimista, perché questo processo va avanti troppo lentamente. È vero che tutti i partiti candidati alle elezioni hanno sottoscritto questa proposta, ma in campagna elettorale il tema fondamentale della scienza non è stato messo a fuoco da nessuno. Non mi pare ci sia una grande sensibilità, men che meno tra le forze che hanno vinto le elezioni, ma spero di essere smentito dai fatti.

Il 24 novembre di 163 anni fa Charles Darwin pubblicava L’origine delle specie, in cui affermava che la selezione naturale premia con la sopravvivenza gli organismi che meglio si adattano all’ambiente. Se fosse vivo oggi, ci darebbe per spacciati?

Homo sapiens è il più grande “ingegnere ecosistemico” che ci sia sulla Terra: da millenni modifica l’ambiente per adattarlo alle proprie esigenze e il cambiamento climatico è uno degli effetti più evidenti. Adesso, però, dobbiamo essere noi ad adattarci all’ambiente che abbiamo modificato, anche se questo comporta grandissime difficoltà e costi molto alti.

 

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