Scatti dalla Corea del Nord: l’atomo del Grande Leader

Nonostante ufficialmente l’emergenza Covid in Corea del Nord sia durata solo 92 giorni (e Kim Yo Jong abbia anche lanciato dure accuse verso la Corea del Sud addossandole la responsabilità dell’espansione del virus portato, a suo dire, da volantini propagandistici inviati dal Sud al Nord), in Corea del Nord esiste un prima e un dopo Covid. I confini a lungo chiusi infatti sono stati riaperti a turisti, diplomatici e uomini d’affari, ma la vita sociale stenta a riprendere vigore. A Pyongyang le biciclette, le auto e i bus sono tornati ad affollare le strade. Nei centri commerciali si cominciano ad intravedere i primi segnali di apertura verso l’esterno: bottiglie di whisky scozzese, cosmetici svizzeri e francesi, elettrodomestici cinesi e giapponesi riempiono gli scaffali, anche se i prezzi, già alti per lo standard locale, sono schizzati a livelli astronomici e pochissimi possono permettersi il lusso di acquistarli. Fino al gennaio 2020 la Corea del Nord era un Paese abbastanza facile, anche se costoso, da visitare per i turisti. Più difficile e complicato, comunque, visitarla fuori dai normali circuiti turistici. Da quando è salito al potere Kim Jong Un, i nordcoreani si sono trasformati: mentre prima rifuggivano lo straniero e rifiutavano di parlare, oggi sono loro ad avvicinarsi e intavolare discorsi (che comunque non sconfinano mai nella politica). La pandemia ha messo in ginocchio l’economia di un Paese che, dopo essere riuscito a galoppare ad un ritmo di sviluppo del 5-7% annuo dal 2015 al 2019, ha subito una drastica battuta d’arresto. Il problema è che di questo rallentamento stanno approfittando coloro che non vedono di buon occhio le riforme sociali ed economiche introdotte da Kim Jong Un, mettendo in pericolo la stabilità del sistema, della nazione e, quindi, dell’intera penisola. La trasformazione dell’economia, da socialista a una protocapitalista, timidamente avviata negli ultimi anni di vita da Kim Jong Il, ha avuto un’accelerazione impensabile sotto la leadership di Kim Jong Un tanto che oggi si stima che l’80% delle entrate finanziarie di una famiglia-tipo nordcoreana provengano da attività private. Negozi, ristorantini, bar, perfino piccoli hotel e bed and breakfast gestiti in proprio sono sorti nelle principali città nordcoreane. Difficilmente i turisti hanno sentore di questo tipo di economia sotterranea ma chi frequenta più spesso il Paese ha la possibilità di “inciampare” in queste isole sociali. A Chongjin pernotto in casa di una famiglia, a Hamhung compro un poncho in un negozietto vicino a una scuola, a Pyongyang acquisto un hot-dog in una bancarella, a Kaechon pranzo nella casa di una cooperativa agricola che offre prodotti del proprio orto e carne degli allevamenti collettivi. Lo Stato garantisce solo i beni di prima necessità: cibo (nelle campagne, però, i negozi sono spesso vuoti o traboccanti di prodotti che pochi utilizzano), case, elettricità (numerosi sono i black-out anche a Pyongyang), scuole, sanità (quando sono disponibili medicine e posti in ospedale). I nordcoreani hanno così imparato a cavarsela da soli: chi ha la fortuna di avere parenti all’estero che spediscono yen, yuan, dollari, euro ha la vita facile. Gli altri si arrabattano inventando attività familiari spesso con successo. Per incentivare la produzione agricola, lo Stato ha permesso ad ogni famiglia di coltivare per proprio uso e consumo terreni di circa 100 mq, mentre i prodotti eccedenti la quota assegnata a ciascuna cooperativa vengono suddivisi tra i componenti delle stesse. Ogni famiglia può gestire la propria parte come meglio crede: alcuni hanno quindi deciso di aprire piccoli ristori; altri, invece, hanno ingrossato le file di chi, ogni dieci giorni, mette in vendita nei mercatini privati, chiamati jangmadang, i propri prodotti a prezzi liberalizzati. Solo così si spiega come i nordcoreani, il cui salario medio è stimato tra i 5.000 e i 10.000 won nordcoreani (equivalenti a circa 0,69-1,4 dollari Usa al mercato nero), possano permettersi di comprare i beni essenziali e voluttuari. Un chilo di riso in alcuni degli jangmadang visitati costa tra 0,8 e 1,2 dollari, un kg di farina tra i 10 e i 30 dollari, il mais costa tra 0,9 e 1,5 dollari. Ma nei mercatini è possibile trovare anche scarpe e vestiti cinesi, prodotti confezionati sudcoreani e giapponesi e, al mercato nero, dvd di serie televisive (Squid Game è oggi la serie più popolare) e cd delle principali band asiatiche (nel 2021 il governo ha formalmente proibito la visione di dvd stranieri, ma questi continuano a circolare). Le riforme di Kim Jong Un si sono rivolte anche alla comunicazione: il leader nordcoreano, già pochi mesi dopo la sua salita al potere nel dicembre 2011, non ha esitato a “tuffarsi” tra le masse, visitando, anche con la moglie, province e villaggi. Aiutato da un dipartimento di propaganda più giovane e inserito nella modernità, assume atteggiamenti diversi a seconda dei contesti in cui si trova, a differenza del padre che aveva una mimica facciale monotematica. Prima della pandemia, visitare Pyongyang a diversi mesi di distanza significava trovarsi di fronte a continui cambiamenti: ogni volta ci si trovava immersi in strade sempre più affollate, traffico più intenso, negozi colmi di offerte. Lo stesso abbigliamento della popolazione cambiava aggiornandosi alla moda del momento. Nuovi quartieri residenziali facevano la loro comparsa e gli appartamenti venivano costruiti con criteri ecologici e di salvaguardia energetica più efficace. Oggi si è rimasti quasi fermi al 2019: il nuovo immenso Policlinico della capitale, fiore all’occhiello di un sistema sanitario allo sbando e disastrato, è terminato (con tre anni di ritardo sul previsto), almeno esternamente, ma non è concesso a nessuno straniero di visitarlo. Nelle campagne siamo ancora lontani da una normalizzazione: i dispensari e i complessi ospedalieri sono martoriati da carenze organizzative e materiali, solo in parte giustificate dal tremendo embargo imposto dalle Nazioni Unite che si ripercuote pesantemente anche sull’industria e sull’agricoltura. Mancano i pezzi di ricambio, il carburante, i medicinali e, cosa altrettanto importante, valuta pregiata. Le rimesse dei nordcoreani all’estero (in Giappone, in Corea del Sud, in Cina e in Russia) rappresentano una parte importante degli introiti dello Stato ma la difficoltà nel reperire moneta sonante, in grado di essere “barattata” nel mercato internazionale, ha condotto Pyongyang a sviluppare due delle attività in cui è specialista: la missilistica e il nucleare. Siria, Pakistan, Iran, i Paesi africani sono i mercati con cui la Corea del Nord sta facendo gli affari più lucrosi vendendo tecnologia militare e conoscenza atomica. Dopo che, con l’arrivo di Biden alla Casa Bianca e di Yoon Suk-yeol alla Casa Blu, il dialogo con Usa e Corea del Sud si è arenato, Kim Jong Un sta mostrando i muscoli riprendendo il programma nucleare con la riattivazione della centrale di Yongbyon, il ripristino del sito di Punggye-ri e l’annuncio di voler riesumare i lavori di costruzione della seconda centrale di Yongbyon 2, ferma ormai da più di 10 anni. All’estero sono pochi coloro che credono realmente che il Paese riuscirà a riattivare un sito non ancora ultimato e per lo più basato su una concezione tecnologica della fissione vetusta. Se Pyongyang riuscisse nel suo intento, però, la produzione annua di plutonio potrebbe moltiplicarsi e raggiungere i 55 kg contro i 5-6 attuali. Ma, come spesso accade, i programmi militari fungono da volano per altri utilizzi. Anche in Corea del Nord lo sviluppo della tecnologia missilistica e atomica ha permesso ai centri di ricerca e alle università nordcoreane di raggiungere livelli avanzati applicando nuove tecnologie in attività come la medicina nucleare.

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