Statistica e pallone: quando il dato è di rigore

Voi pensate alla Nazionale italiana di calcio come a 11 giocatori con la maglia azzurra e l’allenatore. Tutto vero ma accanto ai giocatori, a Mancini e allo staff tecnico c’è un’équipe di medici, preparatori atletici, nutrizionisti e fisioterapisti che si vedono meno ma ricoprono un ruolo ugualmente importante. C’è anche un gruppo di match analysts che lavorano esclusivamente per le squadre nazionali. Simone Contran, milanese di 34 anni, è match analyst per la Nazionale maggiore e head of match analysis per tutte le squadre nazionali della Federazione italiana gioco calcio (Figc).

In che cosa consiste il lavoro di un match analyst?

Alle nostre spalle c’è un’azienda che ci manda le immagini taggate delle partite che noi chiediamo, accompagnate da una serie di dati. Possono essere le nostre partite, se vogliamo rivedere criticamente le precedenti prestazioni, oppure le ultime 5-10 partite degli avversari che dobbiamo incontrare. I dati possono essere quantitativi – quanti colpi di testa, quanti minuti di possesso palla ecc. – oppure più qualitativi (che tipo di passaggi, che tipo di azioni in attacco) e qui diventa importante la conoscenza calcistica. Il nostro lavoro consiste nell’analizzare e interpretare questi dati e, ancor prima, nel fare le domande giuste all’azienda che ci segue, in modo che codifichi determinate fasi o momenti del match.

E una volta che avete analizzato i dati?

Ne parliamo con Mancini, con lo staff e con gli allenatori delle varie nazionali. Poi, assieme, forniamo ai giocatori le conclusioni a cui siamo arrivati attraverso la mole di dati che abbiamo ricevuto. È come se la partita fosse stata vivisezionata istante per istante, da diverse angolazioni.

Ma la figura del match analyst è presente solo in Nazionale?

Assolutamente no. Ormai in Italia ce l’hanno tutte le squadre di serie A, di serie B e anche di serie C e anche nei dilettanti ormai.

Chi sono stati i primi match analyst nella storia del calcio?

Il precursore a metà del Novecento è stato l’inglese Charles Reep, che era un contabile della Royal Air Force e applicò al calcio – era tifoso dello Swindon Town – le competenze contabili di cui era in possesso. I primi match analysts erano dei contabili: muniti di penna e quaderno, contavano le azioni di un certo tipo piuttosto che di un altro. Fu in questo modo che Reep riuscì a calcolare che la maggior parte dei gol scaturiva da azioni con pochi passaggi. Nacque così la scuola inglese di un calcio basato sul lancio lungo. I tempi di Guardiola erano molto lontani così come una certa differenza tra il calcio inglese e quello italiano è rimasta anche nel modo di intendere il lavoro del match analyst. Gli allenatori nordici vogliono ricevere soprattutto dati, numeri, informazioni quantitative; vogliono più che altro dei data analysts. Quelli italiani, e mediterranei in generale, sono più interessati agli aspetti tattici. Che gli italiani siano maestri di tattica è un luogo comune ma… è vero!

Dopo Reep?

La figura del match analyst si è diffusa in modo molto naturale, accompagnata dagli sviluppi della tecnologia. All’analisi numerica delle partite si affidava molto negli anni Ottanta il sovietico Lobanovsky che ha cominciato a usare i computer, così come poi avrebbe fatto il rumeno Lucescu. In Italia, tra i primi ci fu Arrigo Sacchi. Oggi, un allenatore come Sarri che è molto attento alla fase difensiva. Ma, ripeto, da 15-20 anni a questa parte, il match analyst lo si trova in tutte le squadre di club.

Torniamo al campo. Qualche esempio dei messaggi che un match analyst trasmette ai giocatori?

Ai difensori, ad esempio, diciamo quali sono le azioni preferite dagli attaccanti che devono marcare e anche i difensori più esperti, come Bonucci, sono sempre attenti a chiederci informazioni e dati sui loro avversari. Mi faccia dire che i giocatori della Nazionale sono tutti dei grandi professionisti. Sono sempre pronti a studiare per migliorare la loro prestazione. Sono quasi loro che ti vengono a cercare. Diamo anche informazioni sull’arbitro ma è un aspetto minore del nostro lavoro perché, a livello di confronti internazionali di un certo livello, gli arbitri sono sempre gli stessi e i calciatori li conoscono bene.

Penso alla finale degli europei, Italia-Inghilterra, e alla vittoria italiana con la “lotteria” dei rigori. Voi suggerite ai portieri dove buttarsi?

Si, entro certi limiti. Durante la settimana che precede la partita, illustriamo ai portieri tutte le particolari tecniche dei possibili rigoristi avversari: la postura del corpo, se guardano o non guardano il portiere prima del tiro, come effettuano la rincorsa ecc. Bisogna poi distinguere se un rigore viene tirato dopo 10 minuti oppure ai supplementari dopo 120 minuti e in funzione della partita che c’è stata fino a quel momento. Ecco perché, al momento dei rigori, mandiamo un ultimo messaggio al portiere.

Come?

Beh, questo non glielo dico perché altrimenti dobbiamo poi cambiare metodo. Le posso però dire perché molti portieri bevono tra un rigore e l’altro. Lo fanno perché hanno sete ma anche perché così leggono gli appunti sui rigoristi che si sono scritti sulla borraccia. Qual è stata la sua carriera prima di diventare capo dei match analysts della Nazionale? Mi sono laureato in economia alla Cattolica di Milano – sono nato e vivo a Milano – poi ho seguito un master in Sport business management. Naturalmente giocavo a calcio e ho fatto anche l’allenatore, ma in categorie minori. La svolta c’è stata quando ho cominciato a fare il match analyst in serie A con il Sassuolo, con Bucchi prima e Iachini poi come allenatori. Sono entrato nel giro della Nazionale nel 2010, con Prandelli commissario tecnico, partendo dalle giovanili.

Ma, se lei potesse, tornerebbe in una squadra di club?

Potendo scegliere, rimarrei a vita in Nazionale. Primo, perché trovo che Mancini sia una persona straordinaria. Sa ascoltare e non è cosa da poco. E poi, come per l’allenatore e i giocatori, anche per un match analyst la Nazionale è il punto d’arrivo! Sentire l’inno prima dell’inizio delle partite ed esserne coinvolto in prima persona è un’emozione a cui non vorrei mai rinunciare.

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