Ricordando Pietro Greco

Tre anni fa ci lasciava un amico e un grande pensatore. Pietro Greco ci ha ha insegnato a cogliere nessi e legami tra i vari aspetti dell’agire umano. Aveva un sogno: quello di una cittadinanza scientifica. E una convinzione: il legame tra ricerca di base e sviluppo economico

Pietro Greco ci ha lasciato il 18 dicembre di tre anni fa. Pietro ci manca e capita di chiederci cosa avrebbe detto, pensato o scritto sui temi con cui ci confrontiamo. I suoi libri, in realtà, ci permettono di sapere cosa avrebbe detto e pensato perché si era occupato di quasi tutti i temi, oggi, significativi.
La ragione per cui Pietro ci manca (e non ci riferiamo qui al versante affettivo della mancanza di un amico) è più sottile e profonda. Il suo saper cogliere nessi e legami tra tanti vari aspetti dell’agire umano nella nostra società in lui non era mai pura conoscenza astratta. La sua cultura non era mai erudizione ma sapere “incarnato”, qualcosa che riusciva subito a trasmettere. Dopo averlo ascoltato, dopo aver discusso con lui, ciascuno di noi si ritrovava ad avere quel suo sapere non archiviato in una cartella (fisica o mentale) ma intrecciato con la sua persona. Questo è quello che di lui ci manca e che i suoi libri da soli non possono trasmetterci. L’assenza di Pietro, che così dolorosamente sperimentiamo, non riguarda le analisi che ci avrebbe offerto per capire un problema ma la sua persona come portatrice di cultura: un dialogo con lui trasformava le argomentazioni (che possiamo trovare nei suoi scritti) in parte di noi stessi, così come erano parte di lui, per una sorta di contagio empatico.
Andate a rileggere ciò che ha scritto su queste pagine nel numero di luglio 2019 intrattenendoci contemporaneamente su Trotula de Ruggero (XI secolo) e su tante scienziate italiane di oggi.
La sua narrazione riesce a fissare immagini nella nostra mente, in modo indelebile, anche dopo una lettura frettolosa. A chi non lo ha conosciuto chiedo di pensare alla differenza che avrebbe fatto sentire questi racconti dalla sua voce.
Mi accorgo adesso di un errore che sto facendo. Narrare – a chi non lo ha conosciuto – di una persona straordinariamente empatica e profonda fornisce un’immagine incompleta. Pietro non era solo un grande, competente, affascinante e colto comunicatore. Sue sono molte intuizioni di studioso, profondo e innovativo. Dobbiamo ricordare l’originalità delle sue idee, la ricchezza delle connessioni che riusciva a stabilire anche con e tra analisi effettuate da altri, con una capacità unica di recuperare studi che colpevolmente erano stati trascurati o dimenticati. Di queste connessioni desidero ricordarne due. Il suo argomentare sulla necessità, per la società di
oggi, di una cittadinanza scientifica (tesi per illustrare la quale usava tanti strumenti, anche Dante e l’esplosione culturale ed economica della Firenze di qualche secolo fa) e la chiarezza con cui poneva il problema dello stretto legame esistente tra ricerca scientifica di base e sviluppo economico. Collegando, in modo magistrale, le analisi effettuate da Vannevar Bush per il presidente Roosevelt (quando cercava di convincerlo a mantenere con questo mezzo la supremazia che gli Stati Uniti si erano conquistata durante la guerra senza affidarsi solo agli armamenti) con ciò che riguardava (e continua a riguardare) l’Italia. Ricordando i nostri successi in settori di frontiera negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso – persi poi lungo la strada – e gli studi e le indagini empiriche effettuate dall’Osservatorio Enea sull’Italia nella competizione tecnologica internazionale, un’istituzione ideata da Sergio Ferrari, che mostravano perché era iniziato il declino del nostro Paese. Quella che Pietro possedeva a un livello altissimo era la capacità di collegare esperienze diverse indicandone anche il radicamento storico e legandole ai nostri problemi odierni.
Un ricordo personale può forse mostrare l’intreccio tra tutti questi aspetti. Una sera a Pisa, mentre cerchiamo un ristorante, incrociamo una libreria e Pietro mi chiede di entrare. Mentre sbircio tra gli scaffali, si rivolge alla libraia e poco dopo torna con due copie di un libro. Quasi a scusarsi me ne dà una copia e dice: “Sai, sapevo che era uscito ma ancora non lo avevo visto”. Usciamo dalla libreria e vedo che si trattava del Manifesto per la rinascita di una nazione di Bush. Nel farlo pubblicare in italiano aveva premesso un corposo saggio e aveva aggiunto alcuni artifici comunicativi per sensibilizzare il lettore sull’attualità di quelle tesi per rilanciare il nostro Paese.
Gli chiedo una dedica (le cui parole conservo gelosamente, scritte nel libro ma anche nella mente) che lui scrive appoggiandosi precariamente a un muro, ostacolato da un venticello freddo che si era alzato. Intessiamo subito un dialogo e il suo coinvolgimento sul tema contagia anche me, facendo dimenticare a entrambi il vento diventato fastidioso e incidendo – non trovo altro verbo – nella mia mente le sue argomentazioni con uno scavo così netto che restano vivide anche adesso. Ecco, questo era Pietro

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