L’ora più comoda

Un cascame dell’antichità, un’inutile complicazione o, peggio ancora, un’attestazione di aristocratico snobismo: le cifre romane godono ultimamente di cattiva stampa e secondo alcuni andrebbero addirittura abolite (in Francia è stata ventilata di recente una proposta in questo senso). Forse però è proprio la loro aura vintage che le rende ancora vive e magari anche chic. Lo dimostrano i quadranti degli orologi, anche quelli da polso, dove spesso le ore sono indicate appunto con i numeri romani. È un naturale segno di continuità con le antiche meridiane (le cifre arabe si sono diffuse in Occidente solo a partire dal Duecento) ma probabilmente è anche la ricerca di un tocco di raffinatezza da parte dei designer. Quello che è strano è un particolare a cui non sempre si fa caso: il numero 4 molte volte non è scritto IV, come ci si potrebbe aspettare, ma IIII. Non che questo sia un vero e proprio errore: i romani non avevano codificato un sistema rigido per rappresentare i numeri ed entrambe le varianti sono ammissibili (così come, per esempio, 99 si può scrivere XCIX o IC). Semmai, si può notare la maggiore eleganza di scrivere IV rispetto a IIII: la regola “sintetica” secondo cui le cifre a sinistra vanno sottratte è nata proprio per evitare il brutale proliferare delle I. Ma se gli orologiai preferiscono abbondare con le stanghette non c’è niente di male. Il punto è un altro. Se si decide di seguire la versione “prolissa”, allora 9 si dovrebbe scrivere VIIII anziché IX. E invece gli stessi orologi che hanno IIII per il 4, per il 9 hanno IX: un’evidente incongruenza, di cui qualcuno ha cercato di indagare le cause. Una prima spiegazione è puramente estetica. Ai primi orologiai il VIIII doveva sembrare troppo lungo, con ben cinque cifre, mentre le quattro cifre del IIII potevano apparire accettabili perché ce ne sono altrettante nell’8 (VIII). Un’altra ipotesi, più affascinante, punta in direzione della pista numerologica: l’incoerenza sarebbe un pegno da pagare a uno schema più ampio. Se si suddividono le dodici ore in tre blocchi, risulta che nelle prime quattro ore compare solo la cifra I, nelle successive quattro solo le cifre I e V e nelle ultime quattro solo le cifre I e X:

I, II, III, IIII

V, VI, VII, VIII

IX, X, XI, XII.

Anche questa spiegazione è riconducibile a motivi estetici, anzi più sofisticati. E, come la prima, anche se plausibile è però probabilmente poco veritiera. L’interpretazione più convincente è un’altra ancora e, come spesso succede, è la più prosaica. Nella scrittura “ortodossa”, i numeri romani da 1 a 12 sono: I, II, III, IV, V, VI, VII, VIII, IX, X, XI, XII. In tutto compaiono diciassette volte la I, cinque volte la V e quattro la X. Nella variante prolissa, la sequenza è invece: I, II, III, IIII, V, VI, VII, VIII, VIIII, X, XI, XII. In questo caso, le I sono addirittura ventitré, le V ancora cinque mentre le X solo tre. Infine, la versione ibrida usata negli orologi è: I, II, III, IIII, V, VI, VII, VIII, IX, X, XI, XII. Qui ci sono venti I, quattro V e quattro X: la frequenza dei simboli è più regolare e, soprattutto, più comoda per motivi concreti. Quando gli orologi campeggiavano solo sui campanili, le cifre erano grossi pezzi di ferro: le decisioni spettavano non ai designer ma ai fabbri, poco interessati alle questioni estetiche e numerologiche e molto invece a quelle pratiche. Nel loro caso, gli stampi. Per rappresentare le dodici ore nella versione ibrida bastava un unico stampo, in cui la sequenza era VIIIIIX. Infornandolo quattro volte si ottenevano tutte le ore: il primo diventava V, IIII, IX; il secondo VII, III, X, il terzo VIII, I, IX e il quarto VI, II, IIX. Infine, bastava capovolgere il IIX per avere il XII e uno dei due IX per avere l’XI. Volendo invece adottare una delle due sequenze di cifre romane coerenti, gli stampi da realizzare sarebbero stati molti di più. Pensateci, la prossima volta che guardate l’ora.

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