Le guerre puniche vanno studiate (almeno) tre volte

L’assurda contrapposizione fra i due saperi che opporrebbe la cultura e la conoscenza scientifica a quelle umanistiche è una fandonia inventata in tempi tutto sommato recenti e purtroppo propagandata anche da influenti uomini di cultura del XX secolo. Basta fare il nome di Benedetto Croce che, specie a seguito dalla sua rivalità filosofica con Federigo Enriques, seppe trarre il peggio dal suo fraintendimento di cosa sia realmente il sapere scientifico. I due estremi sono paradigmaticamente schematizzabili in questo modo: lo studioso di scienze umane, per esempio il classicista, ritiene il sapere scientifico una mera collezione di fatti tecnici sul mondo empirico: si può far sfoggio di ignorarli in quanto non sono di utilità per la formazione culturale dell’individuo ma rivestono solo un interesse pratico, simile a quello del saper aggiustare una lavatrice. D’altra parte, lo scienziato, per esempio il fisico, ritiene che tutto ciò che è al di fuori del campo di applicazioni della sua disciplina sia fantasticheria indimostrabile o peggio non falsificabile e quindi non degna di nota per la comprensione del mondo. La verità non sta nel mezzo, ma sopra: l’opposizione fra questi apparenti contrari si scioglie guardando a entrambi come creazioni della mente umana che richiedono tanto una competenza tecnico-empirica quanto una visione astratta per essere apprezzate e rettamente comprese. Per esempio, c’è tecnica sia nella matematica necessaria alla rappresentazione dei modelli fisici sia nello studio scientifico delle lingue antiche, siano esse il greco, il latino, il copto o il visigoto. E c’è astrazione, visione e bellezza sia nelle idee della teoria della relatività o della teoria quantistica dei campi sia nella filologia dantesca o nella filosofia morale o nell’antropologia strutturale. Perché tanto gli studiosi di scienze empiriche o esatte quanto gli studiosi di scienze umane sono pur sempre uomini in carne e ossa, individui con i loro pregi e difetti, con i loro entusiasmi e le loro idiosincrasie. E ciascuno possiede una sua indole: c’è chi è nato per brutalizzare equazioni fino a che le loro soluzioni non spieghino un fenomeno fisico e chi è nato per memorizzare in modo strutturato le radici di centinaia di parole indoeuropee che si propagano in decine di lingue; chi è affascinato dalla biologia molecolare e chi dalla filosofia analitica, chi è portato per la comparazione di frammenti di ossa fossili e chi per comprendere usi e culture di popolazioni in via di estinzione. Ciascuno penserà alla sua disciplina come a quella più bella e alla matrice culturale di riferimento come a quella più importante, perché ciò che ci riesce meglio è quel che ci piace e vogliamo illuderci che sia la cosa più importante. Ma qualcosa accomuna tutti questi saperi così eterogenei e questi percorsi culturali e di vita così dissimili: ovunque ci sia della bellezza accessibile solo a prezzo d’apprendere una tecnica, anche molto sofisticata e complicata, c’è un percorso iniziatico da seguire. Questo è vero per le scienze (anche umane) tanto quanto per le arti: chi è portato per la musica dovrà comunque studiare e sudare su uno strumento prima di riuscire a sfruttare il proprio talento, così come chi è portato per la matematica dovrà farlo sui libri di questa o quella sua branca, e così via. Il percorso iniziatico in tutte queste discipline è simile a una scala a chiocciola, che abbia la forma di una elica. L’elica è una curva che si snoda nello spazio e che si può immaginare come un viticcio rampicante lungo la superficie di un cilindro. Vista dall’alto del cilindro sembra un cerchio: se qualcuno ci guarda mentre la usiamo per salire verso di lui, avrà l’impressione che stiamo girando in tondo, come un asino alla mola. Invece, nel girare apparentemente lungo lo stesso percorso, stiamo salendo a ogni giro senza mai passare per gli stessi punti ma elevandoci verso il remoto come dice Borges in un suo celebre racconto. Chiunque abbia studiato una delle discipline a cui stiamo facendo riferimento sa bene che all’inizio dei propri studi nulla di quel che ora è chiaro e familiare lo era. Non si dovrebbe fare, ma posso portare me stesso come esempio; ho dedicato i migliori anni della mia gioventù all’algebra e alla geometria e, ancora oggi, nel leggere un libro o un articolo che tratti di questi argomenti, riesco a seguirlo senza rimanere confuso a ogni frase o capoverso. Che invece è quello che mi accadeva agli inizi. Questo, si dirà, è ovviamente legato al fatto che ora so qualcosa che prima non sapevo ma non è semplicemente così. Prendiamo per esempio i polinomi: li avevo studiati alle medie e poi al liceo e li ho ritrovati negli esami dei primi due anni dell’università e ancora in molte altre occasioni durante il mio percorso accademico. Ma ogni volta che li ho studiati li ho visti da un punto di vista diverso, guardandoli più dall’alto, da una voluta superiore dell’elica che stavo salendo. Uscito dalle medie avrei detto che si trattasse di espressioni letterali; al liceo che si trattasse di particolari funzioni. Al primo anno d’università ho scoperto che formano una struttura algebrica chiamata anello commutativo del quale sono in un certo modo archetipici. Poi, ancora, ho capito che sono l’ombra di oggetti geometrici che ne sono lo spettro (un termine che giustamente fa paura); poi ho capito che i polinomi di più variabili sono il prodotto tensoriale dei polinomi in una variabile e che in generale possono vedersi come l’algebra dei tensori simmetrici. E così via. Si trattava sempre dello stesso oggetto visto da prospettive diverse, ciascuna delle quali ha arricchito e aumentato la mia conoscenza e la mia consapevolezza di non averli, al giro precedente, ancora ben compresi. Perché i polinomi sono tutto quel che ho citato e anche di più e io sono certo di non aver ancora capito completamente cosa siano. La stessa cosa mi è accaduta con lo studio della storia: alle scuole elementari, quando le ho frequentate nel millennio scorso, la storia ci veniva presentata sul sussidiario con i toni e gli elementi narrativi del mito, della leggenda e dell’aneddoto. Ho imparato i nomi di Amulio e Numitore, di Muzio Scevola e Orazio Coclite, mi è stato raccontato che Costantino prima della battaglia con Massenzio vide una croce nel cielo con la scritta in hoc signo vinces e molte altre storie che fanno parte del nostro immaginario e della nostra identità culturale, al di là della loro veridicità (e che oggi tendono ad essere dimenticate). Alle scuole medie ho studiato di nuovo la storia (in soli tre anni e daccapo, non come oggi quale continuazione di quella delle elementari) e il punto di vista era chiaramente diverso: nessuno di noi in classe credeva più a Babbo Natale o alla Befana e la narrazione era più tersa, meno retorica, fatta di luoghi e date, una successione di fatti ed eventi tutto sommato più realistica che alle elementari. Infine al liceo (purtroppo non ho studiato storia all’università, se non per conto mio) dove di nuovo daccapo era, è il caso di dirlo, tutta un’altra storia, fatta di spunti critici, di dubbi, di rimandi alle fonti (con qualche brano di documenti storici in appendice ai capitoli del libro), di connessioni con l’arte, la filosofia e la scienza. Ho quindi studiato tre volte l’evo antico, il medio evo e l’epoca moderna, almeno fino alla prima guerra mondiale per quella sorta di tabù per cui non si poteva (o voleva) arrivare al periodo fascista. E, sì, ho studiato tre volte le guerre puniche! E in ciascuna di queste tre volte le guardavo da un’altezza diversa dell’elica che stavo percorrendo e ciascuna delle tre volte ho imparato un aspetto nuovo che andava ad arricchire, non direi semplicemente incrementare, gli altri. In questo consiste accedere al sapere, alla cultura e alla conoscenza. Che siano scientifiche, umanistiche, artistiche o chissà che altro. La loro complessità ne implica un’ascesa faticosa che richiede impegno e studio. È un’ascesa iniziatica in quanto si deve accettare di non poter sapere tutto e subito e anzi, a ogni nuova voluta della spirale, si scopre che quel che si credeva di sapere invece non lo si sapeva affatto. È un’ascesa forse indefinitamente prolungata lungo tutta la nostra esistenza ogni volta che con la mente, per qualche motivo, torniamo su quel che già sappiamo o crediamo di sapere. Ecco perché è importante aver studiato almeno tre volte le guerre puniche.

Una risposta

  1. Il sapere è unico, distinto in branche ma unico. Le distinzioni tra cultura umanistica e cultura scientifica sono false e non valide, fuorvianti. Basti pensare al fatto che eminenti scienziati sono stati anche ottimi letterati. Galileo Galilei, il Padre della scienza moderna, era letterato prima di essere scienziato. E poi: ad una scoperta scientifica bisogna dare un nome, quindi c’è bisogno del linguista esperto della formazione delle parole partendo dal mondo classico per dare il nome più adatto e significativo, che ne rappresenti il contenuto, alla scoperta scientifica. La contrapposizione tra sapere scientifico e sapere umanistico è perciò falsa. Essi si integrano a vicenda e si completano.

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