Nella scorsa legislatura regionale presentai una legge per il contrasto alla solitudine urbana. Fu approvata dopo alcuni anni, non prima di essere abbinata ad una legge quasi identica della Giunta per non darmi troppa soddisfazione. Posi, come epigrafe alla relazione, la poesia in friulano Spopolamento di Federico Tavan, che aveva affrontato tutta la vita il disagio mentale: Uchì – murî – al èis deventâ – un mout – coma un altre – par tirâ indenant (“Qui, morire è diventato un modo come un altro per tirare avanti”).
La legge nasceva dal mio impegno come sindaco nel movimento Healthy cities (Città sane) dell’Oms, che pone come orizzonte di ogni azione comunale la promozione della salute dei cittadini, intesa non solo come assenza di malattia ma pure come benessere fisico, mentale, emotivo e relazionale. Oltre a vari progetti urbanistici, c’erano il pedibus e il contratto della merenda per promuovere la socialità e l’educazione alimentare tra gli scolari, l’educazione sessuale a scuola intesa come educazione sentimentale all’affettività, i gruppi di cammino e cammina-menti per il contrasto alla sedentarietà e al declino cognitivo degli anziani. Da molti anni e soprattutto dopo il Covid, lo scoppio della guerra e l’infittirsi di eventi climatici estremi, la solitudine, cercata o subita, e il disagio mentale sono in crescita tra giovani, Neet, inattivi e anziani. La questione andrebbe affrontata seriamente.
Sono stato invitato a parlare al convegno Winds of Hope – Acceptance and Capacity for Change promosso dall’International Federation of Telephone Emergency Services, ovvero dai servizi di telefono amico che offrono supporto emotivo. Per prepararmi, ho riletto Voci, dalla raccolta Il gioco del rovescio di Antonio Tabucchi, un’occasione anche per ricordarlo a ottant’anni dalla nascita. Tabucchi è maestro nell’aprire porte sull’infinità del possibile, nelle microprospettive, in quel “gioco del bicchiere” che fa giocare alla volontaria per cercare un contatto con quelli che, fatta la chiamata, non parlano… i Fernando, che non è un gerundio.
Ciò mi ha ispirato a discutere al convegno di quello che non ha scopo ma, come la poesia o la matematica, dà molti frutti: il gioco. Games for game changing è il gioco di parole scelto per titolo. Il gioco, come la letteratura, ci fa avere migliaia di ruoli, ci fa essere contemporaneamente infinite persone, ci immerge nel flusso che ci fa dimenticare noi stessi. Nello sport si chiama trance agonistica, ma è ciò che si prova quando si riflette su un problema matematico o sulla parola da comporre in Wordle. Il gioco, oltre che a perderci, ci insegna a perdere. Poi, si può sempre giocare tabucchianamente a rovescio, cioè a misère – vince chi avrebbe perso secondo le regole ufficiali – e trasformare così le sconfitte in vittorie. O ancora, si può giocare in modo cooperativo, come nelle escape rooms. Come si dovrebbe fare su questo pianeta, dove ci si ostina a non capire che si vince tutti insieme oppure si perderà tutti insieme.