La mia cura è differente

Per una volta siamo arrivati prima di tutti. L’Italia è stata il primo Paese al mondo a promulgare una legge sulla medicina di genere. Una rivoluzione silenziosa, avviata nel 2018 e tuttora in atto, che mira a cambiare radicalmente il modo in cui vengono trattati i bisogni di salute dei cittadini. Un approccio nuovo, che vuole tener conto delle differenze biologiche (definite dal sesso), socio-economiche e culturali (definite dal genere) che influiscono sullo stato di salute e di malattia delle persone. Una vera e propria svolta che interessa ogni aspetto della medicina, dai laboratori di ricerca agli ambulatori medici, dall’astanteria dei Pronto Soccorso ai centri di riabilitazione. Perfino il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha recentemente plaudito a questa novità auspicando che si diffonda quanto prima su tutto il territorio nazionale. Ma che tipo di medicina è quella di genere? “Innanzitutto facciamo chiarezza sui termini: parliamo spesso di medicina di genere, ma in ospedale non troveremo mai un simile cartello all’ingresso di un reparto o un ambulatorio. Non si tratta di una nuova branca della medicina, ma di una dimensione trasversale a tutte le specialità, dalla cardiologia all’otorinolaringoiatria, dalla chirurgia all’oncologia e così via. Per questo è più corretto parlare di medicina genere-specifica”, spiega Giovannella Baggio, medico internista per anni titolare all’università di Padova della prima cattedra di Medicina di genere presente in Italia.  “Non si tratta di una questione femminista, ma scientifica ed etica: significa occuparsi delle differenze di genere a beneficio non solo delle donne, ma anche degli uomini”, precisa l’esperta, da sempre in prima linea come Presidente del Centro Studi Nazionale su Salute e Medicina di Genere. “Sappiamo per esempio che le donne muoiono di infarto più degli uomini, perché spesso presentano sintomi atipici e più sfumati, ma sappiamo anche che gli uomini faticano a vedersi diagnosticata l’osteoporosi, perdendo così anni preziosi per le loro ossa. E ancora: le donne scoprono più tardi il tumore del colon perché nel sesso femminile colpisce più spesso il tratto ascendente senza dare sanguinamento, mentre gli uomini hanno una prognosi peggiore in caso di tumore del polmone perché rispondono meno alle terapie”. Anche la pandemia di Covid-19 ha dimostrato in maniera lampante che perfino la stessa malattia infettiva può colpire diversamente i due sessi, per motivi biochimici e immunitari. “Non si può più andare avanti senza tenere conto di queste differenze, nel campo della prevenzione come in quello della diagnostica, della cura e della riabilitazione. Anche la ricerca scientifica deve cambiare passo. Finora malattie, farmaci e vaccini sono stati quasi sempre studiati su animali e pazienti di sesso maschile. Perché? Sono più semplici: non hanno parametri fisiologici che fluttuano in base all’ovulazione mensile, né possono andare incontro a una gravidanza che imporrebbe uno stop allo studio”, sottolinea Giovannella Baggio. Nonostante queste disparità siano sotto gli occhi di tutti, arrivare alla legge 3/2018 è stato più faticoso del previsto. “Nel 2012, quando venne approvata all’unanimità una mozione parlamentare sul tema, ci eravamo illusi che le cose sarebbero andate avanti speditamente, ma ci sbagliavamo”, ricorda la professoressa Baggio. “Negli anni sono state avanzate ben tre proposte di legge, che però non sono mai riuscite a superare lo scoglio delle Commissioni. La situazione si è sbloccata grazie all’onorevole Paola Boldrini, che ha avuto l’intuizione di inserire il progetto di legge nel Ddl Lorenzin sul finire della legislatura”. Poi si è dovuto attendere fino a giugno 2019 perché la legge venisse tradotta concretamente in un Piano, elaborato dal Ministero della Salute e dal Centro di riferimento per la medicina di genere dell’Istituto superiore di sanità (Iss) con la collaborazione di un Tavolo tecnico-scientifico di esperti regionali sul tema e dei referenti per la medicina di genere della Rete degli Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico (Irccs), nonché dell’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) e dell’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali (Agenas). Il Piano riporta gli obiettivi strategici, gli attori coinvolti e le azioni previste per una reale applicazione di un approccio di genere in sanità nelle quattro aree d’intervento previste dalla legge: percorsi clinici di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione; ricerca e innovazione; formazione e aggiornamento professionale; comunicazione e informazione. A settembre è attesa la prima relazione sullo stato di attuazione del Piano, che sarà presentata in Parlamento dal neonato Osservatorio dedicato alla medicina di genere. Quello che si prospetta è un bilancio fatto di luci e ombre. “Di sicuro in questi anni è cresciuta tantissimo l’attenzione della ricerca scientifica per la medicina genere-specifica: merito soprattutto dei giovani ricercatori, per la maggior parte donne”, afferma Baggio. “Anche dal punto di vista clinico le conoscenze stanno aumentando velocemente: la cardiologia è sicuramente la branca della medicina più avanti di tutte ma si stanno facendo importanti passi avanti anche in altre specialità, in primis l’oncologia e l’immunologia”. Resta però da fare un grande salto: quello che porta le scoperte scientifiche dal laboratorio alla pratica clinica di tutti i giorni. “Per questo ci aspettiamo che le Società scientifiche nazionali e internazionali si attivino per aggiornare quanto prima le linee guida che dicono ai medici cosa fare con i loro pazienti: sono indicazioni vincolanti, rispetto alle quali i medici possono trovarsi a rispondere del proprio operato in tribunale. In America questa operazione di aggiornamento è già cominciata, mentre in Europa siamo ancora indietro”. Nel frattempo in Italia, all’interno dell’Osservatorio, è iniziato il faticoso lavoro di revisione dei cosiddetti Pdta, i percorsi diagnostico-terapeutici assistenziali, strumenti che permettono alle aziende sanitarie di delineare il miglior percorso per i pazienti con una determinata malattia in base alle conoscenze disponibili e alle risorse dell’organizzazione. L’assistenza ai pazienti cambierà in modo radicale. Facciamo un esempio concreto: l’infarto. Con i Pdta attuali, un signore con dolore toracico che si presenta al Pronto Soccorso viene inviato in Area Rossa, mentre una signora che arriva con un sintomo atipico, il mal di pancia, rischia di essere inviata in Area Verde per poi finire in gastroenterologia. Con i Pdta rivisitati in base ai principi della medicina genere-specifica, invece, la donna verrebbe portata correttamente in emodinamica. Il percorso si potrebbe differenziare ulteriormente: se la paziente non avesse le coronarie ostruite da placche aterosclerotiche, il medico saprebbe comunque che non deve escludere a priori l’infarto perché nel sesso femminile può essere causato anche da un microcircolo sanguigno alterato. “È dunque evidente che rivedere i percorsi standardizzati può ridurre il rischio di errori e salvare molte vite”, osserva la specialista. Ovviamente, la revisione interessa anche la medicina territoriale e in primo luogo i medici di famiglia. “Il loro compito è fondamentale, perché sono come sentinelle che per prime devono saper cogliere i sintomi iniziali agli esordi della patologia”, evidenzia Baggio. “In questo senso gli Ordini dei medici stanno facendo molto nella preparazione di percorsi di diagnostica differenziati per genere. Ma il compito non può essere demandato solo agli Ordini: è un processo culturale che deve partire a monte, a cominciare dall’università”. Secondo l’esperta, iniziative come quella dei Bollini Rosa che certificano ogni anno gli ospedali italiani a misura di donna “possono essere utili, ma risultano in un certo senso limitative”, come pure l’idea di creare in Italia un Women’s Hospital, un polo d’eccellenza che si occupi a livello multidisciplinare di salute femminile. “Questa è solo medicina per la donna, mentre la medicina genere-specifica è un’altra cosa”. E quando c’è davvero, non si vede da una targa, ma dalla salute riconquistata dai pazienti.

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