L’impronta è inquinante anche se è digitale

Molti anni fa, dopo una cena fra colleghi in cui si era mangiato e bevuto un po’ troppo, si prese a parlare di massimi sistemi e la cosa finì con un giro di tavolo nel quale ciascuno avrebbe dovuto dire come dare un senso alla propria esistenza. Il collega prima di me disse: “Io vorrei lasciare un’impronta”. Quando toccò a me, non potei trattenermi e risposi: “Io, invece, vorrei cancellarla!”. L’idea di incidere e lasciare tracce nel mondo, che persisteranno quando non ci saremo più, a gloria e fama imperitura, è legata alla nostra vana ricerca dell’immortalità, se non nei fatti almeno nelle parole e nei segni. Le iscrizioni funerarie o anche semplicemente i corredi funerari sono lì a testimoniare questa antichissima pulsione dell’animo umano e costituiscono spesso l’unico modo che oggi abbiamo per studiare antiche civiltà: un archeologo sarà quindi d’accordo con il mio collega: è importante lasciare tracce. Se un tempo farlo poteva essere difficile, non tutti potevano permettersi una lapide in marmo e i documenti avevano un’esistenza assai precaria, oggi lasciare tracce è così semplice, e lo facciamo quasi senza accorgercene, che la cosa difficile è divenuto il non lasciarne. Si pensi ai social network: non è necessario scrivere un post su facebook o un tweet; basta anche mettere un like o rilanciare tweet altrui ed ecco che una nostra impronta, appiccicosa e indelebile, rimarrà incrostata in numerosi server sparsi sul pianeta.

Un altro esempio sono le e-mail: quante volte ci siamo sentiti dire “mandagli una mail, così ne teniamo traccia”? La quantità di e-mail che si scambiano per motivi di lavoro o altro è enorme. Spesso in queste e-mail c’è un messaggio in fondo che dice qualcosa del tipo: “Stampa questa e-mail solo se necessario: rispettiamo l’ambiente!”. Ma siamo sicuri che inviare decine o centinaia di e-mail al giorno non sia tanto irrispettoso dell’ambiente quanto usare carta e penna? In effetti non dovremmo esserlo. Cominciamo con il dire che il volume delle e-mail scambiate in un solo giorno a livello globale è spaventoso: studi che fanno riferimento al 2020 stimano più di 300 miliardi di e-mail ogni giorno (contando ovviamene anche gli spam, una fetta di business malavitoso sempre più importante) e questo valore è presumibilmente lievitato durante il 2021. Stiamo parlando di dati giornalieri: è come dire che ogni abitante del pianeta manda in media tra le 30 e le 40 e-mail al giorno! Se poi moltiplichiamo questi numeri per i 365 giorni dell’anno, troviamo l’astronomica cifra di oltre 100 milioni di milioni di e-mail. Se invece delle e-mail fossero chilometri, avremmo la distanza di 11 anni luce che ci separa dalla stella Ross 128 (nella costellazione della Vergine) attorno alla quale pare orbiti un pianeta abitabile. Cose dell’altro mondo, insomma. Ma torniamo alle impronte e al messaggio in fondo alle e-mail: il senso di quell’avvertimento è che la produzione di carta, come qualsiasi attività umana, comporta un impatto sull’ambiente. Questo impatto ha varie connotazioni ma, per consentire un confronto e utilizzare un’unità di misura comune a tutte le attività umane per compararne la sostenibilità, se ne calcola la “carbon footprint”, letteralmente l’impronta del carbonio, che viene lasciata dai processi produttivi umani in modo più o meno inconsapevole. Il termine “carbon” sta a significare che tutte le emissioni di gas serra (Ghg) di una specifica attività umana che impattano sul riscaldamento globale del pianeta e sull’inquinamento degli ecosistemi sono convertite in una emissione di CO2 equivalente, cioè di anidride carbonica, l’archetipo del gas serra (ma non l’unico: abbiamo il metano, il protossido di azoto ecc.). È come quando stimiamo la ricchezza di un individuo esprimendola in euro: in questo modo con un’unica cifra diamo conto, oltre che degli euro di cui effettivamente dispone, anche di proprietà mobili e immobili, titoli di borsa ecc. La carbon footprint di una specifica attività umana è quindi la sua “ricchezza inquinante”, il lato oscuro dell’economia produttiva, visto che sono soprattutto i processi produttivi (sia industriali che agricoli), oltre che i trasporti pure legati alla logistica produttiva, a fare la parte del leone nell’emissione di questi gas serra. Il calcolo della CO2 equivalente generata da una nostra attività è quindi letteralmente il suo costo ambientale, pagato da tutti noi e da quelli che verranno dopo di noi. È l’impronta che, come il mio collega, stiamo lasciando sul pianeta in eredità alle generazioni future. Le attività che sono principalmente responsabili dell’enorme quantità di anidride carbonica equivalente che immettiamo nell’atmosfera sono i processi di conversione dell’energia. L’energia che utilizziamo per qualsiasi nostra attività, dall’energia chimica che consumiamo per muoverci con le nostre gambe a quella elettrica di quando prendiamo il treno, a quella generata dalla combustione quando usiamo un’automobile (non elettrica), viene convertita da una forma all’altra per poterla utilizzare. In particolare l’elettricità, con la quale oggi facciamo tutto (anche mandare le e-mail), si può generare in vari modi ma i più diffusi sono ancora la combustione del carbone e di altre sostanze fossili come il gas, ora oggetto di contesa con la Russia. Consumare energia elettrica, quindi, contribuisce in modo sostanziale all’emissione di gas serra e alla carbon footprint dell’attività che stiamo svolgendo. Insomma, mandare e-mail inquina. Per capire in che ordine di grandezza, possiamo fare qualche semplice (e semplicistico ma indicativo) calcolo: mentre uno spam “emette” circa 0,3 grammi di CO2 equivalenti, una e-mail normale ne emette 4 e se le alleghiamo qualche file ne può emettere anche 50. Ignorando gli allegati e tenendo conto che dei 300 miliardi di e-mail quotidiane una sessantina sono spam, abbiamo che ogni giorno il traffico e-mail genera almeno 60×0,3 + 240×4 = 978 miliardi di grammi, cioè quasi un milione di tonnellate di CO2 equivalente al giorno. Ed è una stima al ribasso! Per capire la portata di questa stima basterà considerare che, approssimativamente, corrisponde alle emissioni di un milione di biglietti aerei fra New York e San Francisco, al consumo complessivo annuale (in media) di 200.000 persone su questo pianeta (61.000 se statunitensi), al consumo complessivo di 17.000 automobili, carburante incluso, durante la loro vita (media) e si potrebbe andare avanti. Naturalmente non sono solo le e-mail che hanno questo costo: molto più costosi sono gli algoritmi che, per dirne una, invochiamo continuamente quando siamo sui social. In particolare gli algoritmi di intelligenza artificiale, il cui costo ambientale è un problema che i ricercatori si stanno ponendo da tempo. La soluzione a tutto questo c’è: (r)innovare! Da un lato, l’innovazione tecnologica aiuta a ridurre gli sprechi e ottimizzare le risorse usate nei processi produttivi: si pensi all’acqua e ai fertilizzanti risparmiati con l’agricoltura di precisione. Dall’altro, la strada maestra è usare elettricità prodotta da fonti rinnovabili: queste, a differenza dei combustibili fossili, non solo saranno sempre presenti nell’ambiente (mentre carbone e petrolio prima o poi si esauriranno), ma hanno un impatto ambientale trascurabile rispetto alle altre. E, per cominciare nel nostro piccolo, oltre a scrivere “non stampate questa e-mail” nella nostra firma dell’account di posta elettronica potremmo aggiungere “e non rispondete né inoltrate!!!”.

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