Spazi e paradossi

Eclisse totale su uno scenario inverso è il titolo di un racconto breve che descrive lo straniamento di uno studente romano di architettura. Si trova a percorrere luoghi per lui familiari, come quelli del centro di Roma, in un modo che cambia fortemente i consueti rapporti spaziali fra le cose e provoca una serie di paradossi percettivi in cui gli sembra di cogliere una certa logica interna che via via viene all’evidenza e sembra dotata di una certa coerenza. L’autore di questo scritto, Duilio Carpitella, architetto, non è nuovo a queste commistioni fra la sua professione e la geometria intesa come scienza della visione.

Architetto, come è arrivato a scrivere di questo modo di vedere (e di vivere) il mondo “normale” con uno sguardo diverso? Mi hanno condotto a questo tema due spunti: il primo consiste nell’idea che le regole stesse che presiedono al metodo rinascimentale di rappresentazione dello spazio tridimensionale (la “prospettiva lineare”) possano visualizzare gli oggetti in modo strutturalmente diverso, mostrandone in uno sguardo unico e coerente la maggior parte delle sembianze esterne, come se li si osservasse simultaneamente da più angolazioni, ma con un rigore procedurale estraneo alle prassi cubiste. Il secondo spunto è espressivo: riprendendo alla lettera l’idea proustiana che “scoprire il mondo consiste nel vederlo con occhi nuovi”, ho intuito che quel nuovo criterio proiettivo aveva un’intima vocazione metaforica. L’osservare da angoli visuali inconsueti ciò che diamo per conosciuto ci mostra proprio l’esatta differenza che sussiste tra il concetto di “cultura” e quello di “erudizione”. A quest’ultimo è collegabile la ben più ordinaria idea della scoperta del mondo quale sua mera esplorazione fisica.

Ci può fare un esempio di straniamento del protagonista? C’è nella vicenda che travolge il protagonista uno speciale incipit che mi ha alquanto stimolato: il personaggio, uno studente universitario (il cui nominativo coincide con il mio), ha scelto di sottoporsi per il solo periodo estivo a un lavoro per lui “massacrante”, quello di sguattero in una trattoria. Lui che è, presumibilmente, d’estrazione sociale medio-borghese all’improvviso viene proiettato nell’universo dei lavoratori precari, sentendosi temporaneamente “marginalizzato”. È un rilevante “cambiamento di prospettiva” che lo costringe in modo non previsto a percepire l’ambiente in cui vive da sempre, e con cui s’illude di avere confidenza, in modo nuovo e “anormale”, tanto da farlo decidere di condividere con altri la sua nuova e “rivoluzionaria” percezione del mondo. Tutto ciò si presta in un modo tutto suo ad assumere le sembianze di un paradossale stato allucinatorio, un’“inversione prospettica”, appunto: ciò che sappiamo lontano s’ingigantisce e incombe, mentre tutta la realtà che ci era prossima e a portata di mano ci sfugge e si marginalizza.

Che cos’è la prospettiva inversa? L’idea di base è che invece di osservare la realtà da un solo punto d’osservazione (prospettiva lineare), la si può guardare da infiniti punti di vista, tra loro coordinati, da ciascuno dei quali è visualizzato un solo infinitesimo frammento. Ciò significa che esiste una corrispondenza biunivoca tra ogni punto della superficie esterna degli oggetti e il punto d’osservazione corrispondente, cosicché ogni oggetto risulta percepito simultaneamente da infinite angolazioni leggermente differenti l’una dall’altra ma rigorosamente coordinate.

“Macchia cieca”, “Scenario inverso”. Lei sembra giocare con le parole per arrivare a descrivere la complessità. È così? Sono sempre stato attratto dalle espressioni, specialmente quelle derivate dal gergo tecnico-scientifico, che si prestano ad alludere metaforicamente a concetti astratti o filosofici. Per esempio, la “macchia cieca” presente nel titolo del mio primo racconto fantastico non è che una speciale, minuscola porzione della retina dell’occhio che è del tutto priva di recettori luminosi. Il meccanismo con cui il nostro sistema neuro-percettivo è capace di sostituire una “immagine virtuale” alla corrispondente lacuna della visione mi ha indotto a usare quel termine per riferirmi all’idea del sogno, che è anch’esso composto da immagini virtuali e che è proprio l’argomento del libro. Ma sono molti i casi in cui ho usato il linguaggio tecnico secondo questo criterio: “Cerchio Cromatico”, “Coordinate Polari”, “Campo Visivo” sono solo alcuni esempi. C’è poi un altro fattore che entra spesso in gioco: mi piace molto ibridare tra loro concetti che solitamente appaiono non aver nulla in comune, ossia ottenere ciò che i surrealisti chiamavano “associazioni incongrue”.

La mostra “L’occhio di Horus” del 1989 per la quale lei ha collaborato con Michele Emmer ha dato l’avvio anche in Italia a una divulgazione della matematica che si facesse incontro di culture e pescasse nel mondo dell’arte. Che cosa pensa di questa commistione? La direzione indicata da quell’esposizione itinerante è certamente quella dell’abbattimento delle barriere disciplinari e della soppressione, almeno parziale, dei “compartimenti stagni” in cui è ancora molto invischiata la scuola. La vera contrapposizione ideale da superare è però quella tra formazione umanistico-letteraria e scientifico-tecnica, non con l’aspettativa della sostituzione di una delle due all’altra, bensì in vista di una loro sintesi rigorosa in una dimensione nuova.

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