Il mare nel bicchiere: Queneau, Calvino e Kolmogorov

Come molti altri grandi autori del Novecento, da Sinisgalli a Landolfi a Primo Levi, Italo Calvino era affascinato dalla scienza e dalla tecnologia: oltre che in libri come Le cosmicomiche, la fascinazione scientifica, in particolare matematica, è alla base dei suoi romanzi “combinatori” come Se una notte d’inverno un viaggiatore o Le città invisibiliin cui si itera per 53 volte uno stesso schema, la descrizione di Marco Polo di una città della Cina degli Yuan, per (purtroppo) finire con Palomar dove la numerazione associata ai singoli racconti distingue il tema affrontato nel racconto secondo uno schema ternario.

La struttura potenzialmente ricorsiva di queste opere allude in modo evidente alla poetica dell’Oulipo, il “Laboratorio di letteratura potenziale”, gruppo di scrittori della Francia di metà ’900, che annoverava fra i suoi accoliti Raymond Queneau e Georges Perec, e che Calvino frequentò nel suo soggiorno parigino e del quale fondò, per così dire, una filiale italiana, l’Oplepo (Opificio della letteratura potenziale).

L’aggettivo “potenziale” è usato nel senso di un procedimento combinatorio che, applicato a un’opera letteraria, ne possa da questa generare moltissime altre, in una fioritura esponenziale di opere possibili, insite in potenza ma non in atto nell’opera di partenza. Un esempio sono i Centomila miliardi di poemi di Queneau, un libro di sole 10 pagine: in ciascuna pagina figura un sonetto, di 14 versi. Questi sonetti sono scritti in modo che i versi di una riga di ciascuno di essi risultano sostituibili con quelli della medesima riga degli altri sonetti: per esempio, il terzo verso (la riga 3) del sesto sonetto (pagina 6) potrebbe figurare come terzo verso di tutti gli altri sonetti. Cioè potremmo incollare la terza riga della sesta pagina sulla terza riga di ogni altra pagina e continuare a ottenere un sonetto sensato dopo questa sostituzione; e questa proprietà vale per tutte le altre terze righe e in generale per tutti i 14 versi di ciascun sonetto.

Per capire la potenzialità di questa struttura, pensiamo a 10 poesie composte da un solo verso: queste 10 poesie offrono quindi 10 versi (che supponiamo distinti). Ora immaginiamo di aggiungere un altro verso a ciascuna poesia, così che ognuna delle 10 poesie verrebbe ad avere due versi distinti (sarebbe un distico come si dice). Per farlo consideriamo 10 versi v0, …, v9: se uno qualsiasi di questi versi figurerebbe bene, se aggiunto a una qualsiasi delle 10 poesie (al momento composte da un solo verso), otterremmo in questo modo 100 poesie possibili: basterebbe prendere la prima poesia e aggiungerle v0, poi prendere sempre la prima poesia e aggiungerle v1 e così via fino a v9; così ne otteniamo 10 solo dalla prima poesia! Chiaramente ne otterremmo 10 anche dalla seconda, dalla terza e così via fino alla decima. Sommando tutte le poesie ottenute ne troviamo 10 + … + 10 (dieci volte) cioè 10×10 = 100. Ma queste 100 poesie sono completamente determinate solo da 20 versi, i 10 della prima riga e i 10 della seconda riga di ciascuna poesia.

Aggiungendo una terza riga di versi a ciascuna poesia, con l’accortezza che possano andare bene per ciascuna delle 10 poesie che stiamo componendo, il nostro libro continuerebbe ad avere 10 pagine (una per poesia) e ciascuna pagina 3 righe, per un totale di 30 versi, ma sarebbe in grado di descrivere 10×10×10=1.000 poesie!

Ripetendo fino ad avere 14 versi, il numero potenziale di poesie che i 140 versi totali del nostro libro descrivono giunge alla astronomica cifra di 10 moltiplicato per sé stesso 14 volte, cioè 1014, a parole “centomila miliardi”, appunto il titolo del libriccino di Queneau. Anche Jacques Roubaud e Georges Perec hanno composto opere non meno ingegnose che sono potenzialmente in grado di generare innumerevoli di altre opere.

Una frase di Calvino che sembra ispirata a questi esperimenti è celeberrima: la poesia è l’arte di far entrare il mare in un bicchiere. Che vorrà dire? Ne proponiamo una interpretazione qui che ci ricondurrà a un altro personaggio centrale nella cultura di metà ‘900, il geniale matematico sovietico Andrej Nikolaevič Kolmogorov, fondatore della moderna teoria della probabilità, della turbolenza, studioso di logica, topologia e meccanica (la K nel celeberrimo “teorema KAM”). Ma andiamo, se possibile, con ordine.

Per quanto i poemi possano contenere migliaia di versi, la Commedia dantesca ne contiene oltre 14.200, la poesia è una forma espressiva nota per la sua brevità: il sonetto, componimento poetico per eccellenza, consta invariabilmente di 14 versi. Una poesia è dunque un messaggio testuale breve ma che può convogliare un messaggio semantico profondo, come il mare appunto, sebbene il numero di versi di un sonetto non ecceda il numero di sorsi (notare l’assonanza!) di un bicchiere d’acqua. Forse questa è un’altra chiave interpretativa della frase di Calvino.

Il Nostro era bene informato delle teorie scientifiche del suo tempo e non ignorava che il rapporto fra un testo e il suo contenuto di informazione era oggetto di una bellissima teoria, la teoria dell’informazione: infatti nel suo saggio Cibernetica e fantasmi del 1967 (quest’anno è l’occasione giusta per rileggerlo, si trova nella raccolta Una pietra sopra), Calvino menziona esplicitamente Claude Shannon, Norbert Wiener, John von Neumann e Alan Turing, gli artefici della teoria dell’informazione, dell’informatica e anche i pionieri dell’intelligenza artificiale che, scrive il Nostro, hanno cambiato radicalmente l’immagine dei nostri processi mentali.

Torniamo al libro di Queneau: contiene 140 versi ma ne può generare potenzialmente un milione e quattrocentomila miliardi. In qualche modo, questo libro è una “compressione” di tutti i libri possibili che possono essere derivati da esso, un po’ come un file “zip” è una compressione di un file originario da esso ricostruibile. Il contenuto di informazione dei centomila miliardi di poemi è quindi in realtà contenuto nei dieci che Queneau ci presenta e nelle istruzioni per formare tutti gli altri, operazione possibili in teoria ma non in pratica (viene anche alla mente quel che scrive Borges nel suo prologo a Finzioni, che contiene alcuni racconti che paiono suggerire proprio le idee degli oulipisti: delirio laborioso e avvilente è quello di comporre vasti libri, di dipanare in centinaia di pagine una idea la cui perfetta esposizione orale richiede pochi minuti).

Questa è esattamente l’idea della complessità algoritmica di Kolmogorov, una misura di quanta informazione sia contenuta in un testo in termini di quanto quel testo sia “comprimibile”. Questa teoria, che il geniale matematico sovietico pubblicò negli anni ’50 e che è stata poi ripresa ed estesa da altri, fornisce oggi il fondamento teorico di molte altre teorie informatiche e matematiche: qui vedremo come applicarla per spiegare la poetica letteraria dell’Oulipo!

Possiamo spiegarla così: se abbiamo un messaggio testuale, possiamo scrivere un programma per computer che lo stampi sullo schermo. Un programma per computer è scritto in un linguaggio di programmazione, che altri non è se non un formalismo simbolico facile da capire per gli umani, che lo usano per esprimere algoritmi e calcoli, e che viene poi tradotto nel linguaggio di 0 e 1 che è l’unico capito dal computer. Ai nostri fini basterà aver fissato uno qualsiasi di tali linguaggi di programmazione. Un programma in questo linguaggio è un testo contenente istruzioni per la macchina, scritte in questo linguaggio.

Dato un compito da dare al computer, come stampare un testo appunto, esistono moltissimi (a priori infiniti) programmi che lo svolgono: cioè, esistono infiniti programmi che dato un input producono lo stesso output. Per capirlo facciamo un esempio banale: se un programma calcola la somma di due numeri, tipicamente con l’istruzione s = x + y, potremmo far seguire questa istruzione da s = s + 0, che non ha alcun effetto in quando somma a s il numero 0; questo nuovo programma è più lungo ma fa la stessa cosa del precedente (è anche più stupido ma questo qui non ci interessa).

Dunque, possono esistere molti programmi diversi che stampano un messaggio testuale, alcuni più lunghi, altri più corti: supponiamo che uno di questi programmi, che chiamiamo P, abbia n caratteri (un programma è una sequenza di lettere, cifre e alcuni altri simboli che si chiamano genericamente caratteri). Poiché tutti i possibili testi con al massimo n caratteri sono in un numero finito, possiamo elencarli tutti in un certo ordine, non importa quale, e prendere fra essi quelli che stampano il nostro messaggio (ce n’è almeno uno: P). Fra questi ultimi andiamo poi a sceglierne uno di lunghezza minima. Ecco, questa lunghezza minima misura il contenuto di informazione del messaggio da stampare, che si chiama la sua complessità di Kolmogorov.

Quando Queneau scrive solo 10 sonetti ma spiega come da questi ottenerne centomila miliardi o quando Calvino enumera alcune città in una operazione semanticamente iterabile all’infinito, stanno trovando con l’intuizione poetica quel “programma di lunghezza minima” per esprimere un concetto che ad altri richiederebbe pagine su pagine. La loro letteratura potenziale è quindi una ricerca della massima compressione di informazione che consenta di generare miliardi e miliardi di opere letterarie che non vedranno magari mai la luce ma che, in potenza, sono contenute nella loro “opera compressa”. Potremmo dire che la letteratura potenziale è la ricerca della complessità di Kolmogorov di un insieme a priori sconfinato e caotico di opere possibili.

Altrimenti detto, far entrare il mare in un bicchiere.

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