La geometria dinamica degli indigeni del Pacifico

L’immane bomba all’idrogeno sganciata dagli Stati Uniti nel 1954 sull’atollo di Bikini, mille volte più potente di quella di Hiroshima, ha dato un’improvvisa e triste fama mondiale alle isole Marshall, oggi rinate grazie alle meravigliose spiagge che attraggono numerosi turisti. L’arcipelago, situato nell’Oceano Pacifico poco a nord dell’Equatore, è una piccolissima repubblica comprendente 5 isole e 29 atolli composti da isolette, per la maggior parte disabitate, con una superficie complessiva inferiore a quella di una qualunque provincia italiana. Piccole, sì, ma sparpagliate su un’area di mare pari a oltre sei volte l’Italia. Naturalmente, queste due caratteristiche hanno inciso sull’evoluzione culturale delle popolazioni locali, anche dal punto di vista della matematica. Tutti i popoli primitivi hanno elaborato una qualche forma di geometria e tutti, compresi i greci, lo hanno fatto almeno inizialmente spinti da motivi pratici. Solo che le necessità variano a seconda delle condizioni geografiche, e così variano anche le soluzioni escogitate. L’etnomatematica è la disciplina che studia gli approcci alla matematica da parte dalle diverse civiltà. E proprio gli indigeni delle isole Marshall hanno ideato una geometria unica e sorprendente. Il termine geometria significa etimologicamente misura della terra ma in un atollo di pochi ettari non aveva molta importanza calcolare l’area delle superfici. Non c’erano appezzamenti agricoli da censire. Né c’erano problemi di orientamento per gli spostamenti terrestri, mentre era indispensabile conoscere le distanze e le direzioni per navigare in canoa da un’isola a un’altra. Così le carte geografiche dei marshallesi erano in definitiva carte nautiche. La loro realizzazione pratica, a causa della scarsità di materie prime e di mezzi tecnologici, era piuttosto rudimentale. Erano costruite con piccole conchiglie e bastoncini ricavati dalle nervature delle fronde di palma (per cui vengono chiamate oggi “carte a bastoncini”) ma l’aspetto più interessante è quello simbolico, che rifletteva conoscenze tramandate come un patrimonio prezioso da una generazione di marinai esperti all’altra. Lo scopo principale era garantire una navigazione sicura e il più veloce possibile. Perciò non era rilevante la distanza effettiva, euclidea, fra due isole ma lo erano il tempo che ci voleva ad arrivare da una all’altra e la rotta migliore. Dati che dipendono in parte dalla distanza, ovviamente, ma anche da altri fattori come le onde, le maree e le correnti. Perciò le conchiglie, che rappresentavano le isole, non erano disposte secondo la loro posizione reale come nelle nostre carte geografiche ma in base ai tempi di navigazione. Per esempio, due isole erano posizionate vicine se grazie alle correnti favorevoli il tragitto da una all’altra durava poco. I bastoncini, che indicavano le onde e le correnti, servivano a trovare la rotta più rapida fra due isole: una distanza calcolata non in linea retta, come nella geometria euclidea, ma seguendo itinerari che a seconda del regime delle onde potevano anche essere curvilinei o misti. I marshallesi avevano cioè sviluppato un sistema geometrico forse meno coerente e rigoroso di quello europeo, ma anche in un certo senso più sofisticato. Non prendeva in considerazione solo oggetti spaziali fissi ma anche grandezze fisiche variabili nel tempo come onde e correnti. Era una geometria dinamica, a differenza di quella “statica” che ci è familiare (e che a loro sarebbe servita molto poco). È un po’ quello che facciamo oggi con le mappe delle reti della metropolitana nelle grandi città: quello che viene raffigurato non è la distanza fisica fra due luoghi né l’eventuale curvatura del percorso che li connette, ma il numero delle fermate che li separano ed eventualmente i cambi da effettuare. Anche noi occidentali, molto tempo dopo gli indigeni del Pacifico, abbiamo capito che a volte la geometria più utile non è quella più intuitiva.

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