L’inverno demografico che non finisce più

Un’Italia stanca, anziana, con un tasso di natalità in picchiata e giovani generazioni che, sfiduciate, vanno a ingrossare le sacche dei Neet oppure decidono di emigrare all’estero per non vedere sprecato il loro titolo di studio. Quante volte negli ultimi anni ci è capitato di leggere sintesi così spietate sul nostro Paese? Quante volte abbiamo sentito denunciare lo stato precomatoso di un Paese in grave crisi nella sua stessa strutturazione sociale? Per comprendere però l’Italia di oggi occorre, come sempre, partire dai dati: “E questi ci raccontano che nei prossimi vent’anni la popolazione italiana in età da lavoro calerà di 6,8 milioni di persone e quella in età di pensione aumenterà di 6,6 milioni”, ci dice Alessandro Rosina, professore ordinario di demografia e statistica sociale all’università Cattolica di Milano. I dati Istat parlano chiaro e descrivono una tendenza che sembra ineluttabile: in Italia la popolazione residente è in calo: da 59,6 milioni del gennaio 2020 scenderà a 58 milioni nel 2030, fino a raggiungere con l’attuale trend i 47,6 milioni nel 2070. “Rischiamo di diventare un Paese da 40 milioni di abitanti, con un rapporto tra giovani e anziani di 1 a 3 nel 2050”, ha denunciato il Presidente dell’Istat Gian Carlo Blangiardo. Eccolo anche nei dati, dunque, il Paese sempre più anziano e insostenibile, non solo per la bassa potenzialità innovativa ma anche per il suo stesso welfare, anello debolissimo di un’Italia in cui la diseguaglianza sociale è stata amplificata dalle conseguenze della pandemia. Come sottolinea il professor Rosina, “l’aumento della popolazione anziana si traduce in un aumento della domanda di assistenza sanitaria e in un innalzamento della spesa sanitaria (che nel 2018, ancora prima della pandemia, ha sfiorato il 13% dell’intera spesa pubblica complessiva, ndr). A questo si deve aggiungere l’aumento della spesa pensionistica, già consistente. Insomma, in Italia si produce sempre meno ricchezza e si fa funzionare sempre meno il sistema di welfare”. Questo, in un Paese che ha il secondo debito pubblico più pesante d’Europa, si traduce ovviamente nell’impossibilità di investire “in comparti strategici come scuola, ricerca e innovazione”. Alla base di questa tendenza vi è un dato che da anni vediamo calare a ritmo inesorabile: quello del tasso di natalità. Sempre secondo l’Istat, nei primi 9 mesi del 2021 le nascite in Italia sono state 12.500 in meno rispetto al 2020, un calo quasi doppio rispetto a quanto osservato tra gennaio e settembre dell’anno precedente. Le donne residenti in Italia hanno un tasso pro-capite di 1,24 figli, un dato in continua diminuzione e che fa riflettere se paragonato a quello dei nostri vicini francesi che nel 2019 vantavano un tasso di 1,86 bambini per donna. Allora, da dove possiamo ripartire per invertire una tendenza, come visto, insostenibile? La risposta, sempre secondo il professor Rosina, potrebbe arrivare dal superamento di tre storiche lacune del nostro Paese: “Innanzitutto, bisogna lavorare su formazione e competenze per evitare che la transizione scuola-lavoro continui a causare l’aumento dei cosiddetti Neet, giovani che non studiano né cercano lavoro. Questo causa ovviamente una lunga dipendenza dei figli dai genitori e procrastina il momento dell’emancipazione e della procreazione”. Siamo uno dei Paesi con la più alta età di prima genitorialità e questo incide sulla scelta di avere un secondo figlio. La seconda tendenza negativa è quella della sempre più difficile conciliazione lavoro-famiglia, troppo spesso in Italia ancora totalmente sulle spalle delle donne: “In questo caso il focus deve essere rivolto all’aumento degli asili nido e a politiche che rendano sostenibili le loro rette e qualitativamente superiori i servizi per l’infanzia e che promuovano il part-time volontario (oggi solo una lavoratrice su tre sceglie autonomamente un tale impiego). Poi, ovviamente, vanno sostenute politiche per l’equilibrio di genere attraverso, per esempio, i congedi di paternità obbligatori”. Infine, c’è il fenomeno dei cosiddetti working poor che, pur lavorando, godono di un reddito che rende insostenibile la scelta di avere uno o più figli. Proprio per contrastare queste tendenze, il governo Draghi ha lanciato l’Assegno Unico e Universale, un sostegno economico alle famiglie attribuito per ogni figlio a carico fino al compimento dei 21 anni. “Prima di giudicare il suo funzionamento dovremmo analizzare le sue evidenze empiriche, sapendo che negli altri Paesi strumenti analoghi hanno funzionato bene”, aggiunge Rosina che ritiene comunque “lodevole l’intenzione del legislatore di semplificare il quadro frastagliato di bonus e detrazioni, con un messaggio esplicito: le famiglie non si abbandonano e i figli non sono un costo privato, ma un bene collettivo su cui la società intera deve puntare”. Un passo avanti, dunque, da accogliere con favore, consci che l’Italia può anche vedere nell’Europa un valido supporto al superamento della sua recessione demografica. Il Next Generation Eu lanciato da Bruxelles, infatti, promuove politiche e investimenti che supportano i giovani e aiutano la loro emancipazione e propensione alla natalità. “Il conseguente Pnrr italiano destina molte risorse per i servizi dell’infanzia (in Svezia e Francia, dati Eurostat, oltre il 50% dei bambini di età tra 0 e 3 anni frequenta una struttura per l’infanzia contro il 29% del nostro Paese), per la transizione verde e digitale che deve puntare anche sulla formazione dei giovani e sul conseguente aumento delle opportunità lavorative”. Il nostro viaggio nello scenario demografico del nostro Paese non può infine prescindere dall’analisi dei flussi migratori. I dati Inps ci parlano di lavoratori stranieri ormai indispensabili per l’equilibrio del nostro sistema pensionistico, dato che l’86,6% dei cittadini stranieri sono lavoratori attivi (quindi contribuenti) contro il 6,6% di pensionati e il 6,8% di percettori di prestazioni a sostegno del reddito. “Ecco perché abbiamo bisogno di gestire meglio i flussi migratori, per attrarre manodopera e competenze necessarie a un sistema industriale che altrimenti rischierebbe il collasso”, sottolinea il professor Rosina. Se da un lato, infatti, importiamo manodopera scarsamente qualificata, dall’altro perdiamo intere porzioni di classi intellettuali, con la cosiddetta fuga di cervelli all’estero. Sulla rivista Neodemos i ricercatori Massimo Armenise e Federico Benassi hanno stimato nei prossimi anni un crollo degli iscritti agli atenei italiani del 20%, e la “crisi di molte università soprattutto al centro-sud”. Nell’ultimo decennio l’emigrazione di laureati è cresciuta in Italia del 41,8%, un enorme sciupio di risorse investite nella formazione di giovani che poi vanno a fare la fortuna dei Paesi nostri competitors. E questo, nel rigido inverno italiano, non ce lo possiamo più davvero permettere.

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