Il ritorno del nucleare

Ammettiamolo: dopo il referendum del 2011 ci siamo distratti. Pensavamo che la questione non si sarebbe più riproposta. L’avevamo archiviata insieme ai vecchi ricordi di Chernobyl, ai titoli dei giornali su Fukushima e alle risatine per il pesce triocchiuto che sguazzava sotto la centrale del signor Burns nella serie dei Simpsons. E invece eccoci qui, a discutere di energia nucleare. Non solo in Italia, con il caro bollette e le polemiche sulle affermazioni dei vari ministri nel tempo e il mito che risorge dalle sue ceneri come una fenice della “fusione nucleare”. Anche i palazzi dell’Unione europea sono stati teatro di una furiosa battaglia per l’inserimento del nucleare nella tassonomia verde, il sistema di classificazione degli investimenti considerati ecosostenibili in vista della decarbonizzazione prevista dal Green Deal. Il tema è estremamente divisivo, non c’è dubbio, ma il dilemma rimane: l’atomo è il passato o il futuro dell’energia? Proviamo a fare il punto, guardando a quanto è stato fatto finora e a quanto bolle nel pentolone della ricerca. Il 2022 si è aperto con 439 reattori nucleari in funzione in 32 Paesi del mondo, mentre 52 sono in costruzione in 19 nazioni. In Europa sono attivi 106 impianti, a cui dovrebbero aggiungersene altri 4 in via di realizzazione tra Finlandia, Francia e Slovacchia. Dopo il calo registrato a seguito dell’incidente di Fukushima, negli ultimi anni la produzione mondiale di energia nucleare ha ripreso a salire. Attualmente fornisce il 10% dell’energia elettrica totale nel mondo (percentuale che sale al 25 in Europa), ma rappresenta il 28% di tutta l’elettricità prodotta senza emissione di gas climalteranti (quasi la metà, ben il 47%, in Europa). Secondo i dati pubblicati dai ricercatori di Oxford sul sito Our World in Data, il nucleare dovrebbe essere considerato tra le fonti energetiche più sicure e pulite (almeno in termini di emissioni atmosferiche) insieme alle rinnovabili: il tasso di mortalità per incidenti e inquinamento atmosferico è stimato pari a 0,07 decessi per ogni terawattora di energia prodotta (contro i 24,6 decessi legati al carbone), mentre le emissioni di gas serra ammontano a 3 tonnellate per gigawattora (273 volte in meno del carbone). “Ad oggi, la miglior tecnologia nucleare disponibile sul mercato è quella di III generazione, che rappresenta già un passo avanti in termini di sicurezza rispetto ai reattori di Fukushima: avessimo avuto questi nuovi reattori in Giappone, quasi certamente l’incidente che si è verificato non sarebbe stato così grave”, afferma Marco Ricotti, professore ordinario di impianti nucleari al Politecnico di Milano e presidente del Consorzio interuniversitario per la ricerca tecnologica nucleare (Cirten). “I difetti di questa III generazione ci sono, ma sembrano manifestarsi solo in Europa e Stati Uniti: mi riferisco ai grandi ritardi nella costruzione (anche di 10 anni rispetto ai 4 previsti) e al drammatico incremento dei costi (dai 3-4 miliardi di euro previsti a oltre 10). La stessa tecnologia è stata realizzata in Cina senza questi gravi problemi mentre tecnologie simili sono state costruite con ritardi contenuti in Corea del Sud, Russia ed Emirati Arabi”. Lungaggini e costi gonfiati hanno messo in dubbio la convinzione diffusa che serva aumentare la taglia dei reattori per avere centrali più economiche. Si è così fatta strada l’idea dei piccoli reattori modulari (Small modular reactor, Smr), “di dimensioni più contenute, tecnologicamente più semplici, da progettare e realizzare in moduli da costruire in officina – spiega Ricotti – per poi trasportarli e assemblarli sul sito. I maggiori vantaggi sarebbero in termini di qualità, standardizzazione, tempi, costi, disponibilità di una filiera industriale più ampia. Inoltre, tutti adottano sistemi a “sicurezza passiva” che non necessitano di energia elettrica o di componenti “attivi” come le pompe, ma si basano su leggi fisiche, come la forza di gravità che consente di realizzare per esempio sistemi a circolazione naturale”. Oggi sono due le nuove tecnologie in funzione al mondo: una russa, “mobile” e trasportabile su nave, e l’altra cinese. Altre sono poi in fase avanzata di sviluppo: ce ne sono in costruzione in Argentina, in fase di licenza presso l’autorità di sicurezza negli Usa, pianificate per la realizzazione in Canada e in progettazione anche in Europa, più precisamente in Francia. In totale, sono oltre 70 i progetti di Smr nel mondo elencati dall’Agenzia internazionale per l’energia atomica dell’Onu (Iaea), anche se “realisticamente solo una percentuale limitata raggiungerà la maturità commerciale”, aggiunge Ricotti. Grandi aspettative sono riposte anche nei cosiddetti reattori di IV generazione, che vedremo probabilmente tra il 2030 e il 2040. “Delle sei tecnologie identificate come promettenti, le più interessanti sono quelle dei reattori raffreddati a piombo liquido, a sodio, a sali fusi e a gas ad alta temperatura”, racconta l’esperto del Politecnico. Tra gli obiettivi, oltre a quello di aumentare la sicurezza degli impianti, c’è anche quello di ridurre il problema delle scorie. I reattori di IV generazione producono un eccesso di neutroni rispetto a quelli necessari per mantenere la reazione di fissione a catena e questi “proiettili extra” potrebbero essere usati per “rompere” e “bruciare” i rifiuti radioattivi, riducendone la radiotossicità dagli attuali 100 mila anni a circa 300 anni. “I russi saranno i primi a dimostrare la fattibilità industriale di questo “ciclo chiuso”: stanno costruendo un reattore di IV generazione raffreddato a piombo liquido (Brest 300) ed entro il 2029 costruiranno anche l’impianto di rifabbricazione del combustibile e l’impianto di riprocessamento, che serve a separare i rifiuti radioattivi dal combustibile”, precisa Ricotti. La prospettiva di sviluppare tecnologie che potrebbero aprire al nucleare altri settori industriali e nuove applicazioni (come la produzione di idrogeno, la fornitura di calore ad alta temperatura per l’industria e l’utilizzo sulle grandi navi-cargo) fa gola anche agli investitori non tradizionali. “La fondazione di Bill Gates, per esempio, in collaborazione con General Electric-Hitachi sta supportando lo sviluppo di un reattore di IV generazione (Natrium) basato sulla tecnologia del sodio liquido e con l’integrazione di un sistema di stoccaggio dell’energia termica con sali fusi, per garantire la massima flessibilità di utilizzo e un’integrazione ottimale con le energie rinnovabili”, aggiunge Ricotti. E se anche l’Italia domani mattina decidesse a sorpresa di rimettersi in pista per tornare al nucleare, che mosse dovrebbe fare, o meglio, quali dovrebbe evitare? L’errore più grosso da non commettere sarebbe quello di iniziare a lavorare a un impianto senza un forte accordo di lungo termine fra gli schieramenti politici, perché “un reattore è una tecnologia complessa che non si accende e si spegne in un attimo come un interruttore, ma impegna per quasi un secolo: basta considerare che servono 5-10 anni per realizzarlo e poi, dopo una sessantina di anni di attività, bisogna passare allo spegnimento e, una volta decaduta la radioattività, allo smantellamento – osserva l’esperto – Per l’Italia sarebbe più opportuno guardarsi intorno e stringere rapporti di collaborazione internazionale per fare ricerca sulle nuove tecnologie, in modo da non farsi trovare impreparata in futuro”. In questo senso, racconta Ricotti, è in fase di avvio una collaborazione con i francesi per lo sviluppo di Nuward, un Smr compatto ad acqua pressurizzata. Da alcuni anni Ansaldo Nucleare, Enea e le università nucleari del consorzio Cirten sono leader in Europa di un progetto di reattore di IV generazione al piombo, Alfred, sviluppato in collaborazione con enti rumeni: proprio in Romania sono in fase di costruzione alcuni importanti esperimenti su grande scala per la dimostrazione della tecnologia. Infine, una start-up italiana (Newcleo) ha da poco avviato la progettazione di un reattore Smr basato sulla stessa tecnologia.

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