Intervista a Marco Malvaldi: io, la scienza e il senso del numero

In occasione dell’uscita del nuovo romanzo storico di Marco Malvaldi, “Celeste e oscura”, con protagonista niente meno che Galileo Galilei nei panni di investigatore e di cui troverete un’ampia recensione sul Prisma in edicola dal primo giovedì di luglio, riproponiamo un’intervista all’autore fatta dalla nostra Silvia Benvenuti

 

Ci accoglie, virtualmente, tra gli scatoloni del suo trasloco, nel “meraviglioso momento noto come: via, ora bisogna mette’ tutt’a posto”. Un trasloco da Pisa a Pisa perché Marco Malvaldi, come ci tiene a sottolineare, nonostante collaborazioni e impegni in tutta Italia, è “pisano dentro”. Una pisanità che del resto trabocca prepotente da tutti i suoi libri, a partire dal barrino di Massimo e dal gergo vernacolare dei suoi avventori fino al pisanissimo Scacco alla torre, passando per le gesta della Loggia del Cinghiale. Una pisanità che è spesso efficace veicolo di umorismo, una chiave stilistica che caratterizza Marco nel pano- rama del giallo italiano. “La cosa davvero buffa – dice in proposito – è che io ero convinto di scrivere gialli, invece ho scoperto presto che la gente legge quello che scrivo perché fa ridere. Cioè non sono un giallista, sono un umorista. E se mi sforzarsi di esserlo, sicuramente non mi riuscirebbe”. Come giallista, peraltro, è atipico anche a causa della sua formazione scientifica che influenza pesantemente sia i plot che lo stile, cosa di cui Marco è perfettamente consapevole: “Chi sa di scienza apprezza il fatto che tutto torni in maniera logica e che dei contenuti scientifici emerga non solo la controparte nella vita reale, ma anche l’utilità in quella immaginaria”. In questo senso Marco sottolinea come la formazione scientifica sia un “vantaggio sleale” per uno scrittore: gli mette a disposizione un arsenale linguistico sterminato, di cui lo scrittore-scienziato coglie sfumature che sfuggono all’uomo della strada e che quest’ultimo può però imparare leggendo. “Un giallo scritto da uno scienziato – chiarisce Marco – è un po’ come il Montalbano di Camilleri: all’inizio non capisci niente; poi, a forza di leggere, interiorizzi che spia vuol dire chiede, alluma significa accende, ecc. perché a forza di vedere queste parole sconosciute in quello specifico contesto, capisci che non possono significare nient’altro”. La semantica, in altri termini, si ricava dalla sintassi e dal contesto. Lo stesso succede negli scritti di uno scienziato: ogni disciplina scientifica ha un suo linguaggio, che molto spesso prende in prestito parole del linguaggio naturale che però in quel contesto vogliono dire un’altra cosa.

Per fare qualche esempio strettamente matematico, diagonale, obliquo, coerente hanno per il matematico un significato del tutto diverso da quello che hanno nella lingua di tutti i giorni ma che risulta chiaro quando i termini vengono inseriti nello specifico contesto. Gli scienziati sono abituati a fare lo sforzo di accordarsi tra loro sul significato da dare al singolo termine, a seconda del contesto; hanno familiarità con le metafore e sono talmente abituati a vedere le cose nella loro testa e poi a spiegarle agli altri, che per forza devono sviluppare un’abilità linguistica un po’ ortogonale a quella solita”. Si noti l’uso del termine ortogonale: un matematico avrebbe forse detto sghembo ma Malvaldi è un chimico, come scopriamo nel suo sito ufficiale, dove ci accorgiamo anche che ha una terza faccia, quella del giocatore di ping pong. Da grande Marco voleva fare il giocatore di ping pong: “Volevo essere uno che fa qualcosa – dice – non uno che racconta qualcosa”. In questo senso, visto che giocare gli veniva benino ma non in modo eccellente, si sarebbe probabilmente accontentato di fare il chimico, se la vita non avesse voluto in un altro modo. “Io – precisa – tuttora mi sento un chimico. Se mi chiedi chi sei, ti rispondo che sono un chimico che scrive, non uno scrittore che ha studiato chimica”. Come spesso succede, Marco in realtà ha scoperto solo dopo essersi iscritto all’università che cos’era davvero la chimica, “l’arte di spiegare il visibile attraverso l’invisibile”. E quando l’ha scoperto se ne è innamorato: “Mi piaceva la parte più creativa, più combinatoria: vedevo queste molecole, queste pallette con le molle che vibravano e diventavano qualcos’altro. Mi piaceva l’idea di capire il perché, più che il come e il quando. Mescoli farina e acqua e ottieni la colla, ci aggiungi le uova e ottieni il dolce: e la colla dove è andata a finire? Volevo capirlo per conto mio, non volevo che mi dessero le formule da applicare per arrivarci”. È un problema grosso che probabilmente investe tutte le discipline scientifiche: troppo spesso quello che si fa a scuola non ha niente a che vedere con la scienza che “ti innamora”. Gli studenti, anche quelli bravi, hanno l’impressione che fare chimica (o fisica o matematica) sia il “seguire le istruzioni” cui fa riferimento Malvaldi e naturalmente questo a chi ha un minimo di ambizione e creatività sembra riduttivo. Soltanto (salvo virtuose eccezioni) quelli che fortunosamente arrivano a studiare le scienze dure all’università hanno modo di scoprire che, in fondo, fare scienza significa in primo luogo “selezionare gli oggetti giusti con cui giocare. Pensa alla matematica – continua Marco – Quando sei a scuola ti immagini che gli ingredienti siano stati dati dal Signore, come tavole della legge. Poi vai a leggere gli Elementi di Euclide e ti rendi conto della lucidità mostruosa che c’è nell’individuare proprio questi oggetti come i mattoni di tutte le costruzioni più complesse”. La vera capacità dello scienziato, in particolare del matematico, sta nel riuscire a individuare chi sono gli oggetti e le regole del gioco, ovvero gli ingredienti più importanti che consentono di “modellizzare” un sistema sfrondandolo dalle cose superflue. Come esempio, Marco sceglie quello di un famoso toscano, Leonardo Da Vinci: Leonardo fa matematica nel suo Trattato della pittura quando la definisce come “la scienza di rappresentare in due dimensioni e fermo ciò che nella realtà ha 3 dimensioni e in più si mòve”. “Se ci pensi – continua Marco – è la stessa cosa che fa lo scrittore: quando scrivi, devi scegliere le cose veramente importanti da raccontare. Se tenti di descrivere tutto, non sai mai a che punto fermarti e finisci per non dire niente”. Anche per scrivere, quindi, la capacità più importante è quella di sfrondare, di cogliere l’essenziale. Alla nostra insinuazione che forse anche questa idea della scrittura è frutto della sua formazione scientifica e non è vera in generale per scrittori di altra estrazione, Malvaldi ribatte fornendo un controesempio inattaccabile: “Una volta chiesero a Hemingway – di formazione tutt’altro che scientifica – se era in grado di scrivere un romanzo in una pagina, e lui rispose: io ti scrivo un romanzo in 6 parole: Vendesi scarpe da neonato mai usate”. 1 a 0 per Malvaldi (e òla per Hemingway, naturalmente). Guardandolo oggi, non è difficile immaginarselo Malvaldi, con i suoi occhialini e il camice bianco mentre armeggia tra becker e provette. “In realtà poco dopo essermi iscritto ho scoperto che in laboratorio ero pericoloso. Oltre che maldestro sono anosmico, non sento gli odori. Quindi mettimi in un laboratorio chimico e hai qualcosa di molto vicino a un terrorista. Fortunatamente, la chimica è molto più versatile di altre materie: dallo smanettone, al teorico puro, al precisino, ci sono tanti modi in cui puoi fare il chimico e tra questi avevo trovato il mio”. Fino a che, appunto, non si è accorto che c’era qualcosa che sapeva fare anche meglio, ovvero il giallista. L’ambizione a essere tra i top di quello che fa è responsabile del fatto che, tra le sue vesti pubblicizzate dal sito, non ne compaia una importante che i lettori attenti dei suoi libri conoscono bene. Non compare “perché me ne vergogno”, e giù una risata. “Io avevo l’ambizione di fare il cantante e quando mi sono reso conto che ero solo un cantante corretto ma niente di più, all’inizio ci sono rimasto male. La cosa era abbastanza chiara agli altri ma non a me. Come sempre: talento e riconoscibilità. Perché puoi anche essere lievemente scorretto, tecnicamente non precisissimo, ma l’essere riconosciuto è la chiave per poter fare questo tipo di lavoro, un lavoro artistico. Io quella cosa lì a livello musicale non ce l’avevo e il fatto curioso è che, non avendocela, non mi rendevo conto di non avercela”. È il cosiddetto effetto Dunning – Kruger: “Ero talmente ignorante da essere ignorante di essere ignorante. Sono contentissimo di aver studiato musica perché studiandola ho imparato tante cose, tra cui forse la più importante è che bisogna ascoltare gli altri prima di parlare. Ma ho imparato anche che quello che ti immagini su di te non è necessariamente la verità, anche in cose in cui apparentemente sei molto esperto. Io di musica ho studiato tanto, diplomi, corsi, però non c’avevo una cosa essenziale per avere successo e, non avendocela, non ero in grado di capire che non ce l’avevo”. Ehm…e allora come te ne sei accorto? “Me l’hanno detto! Un giorno il mio maestro mi disse: io non ti riconosco mai, non mi accorgo mai se ci sei o non ci sei” Un bel problema, specie per uno che non ne vuole sapere di “cantare nel coro”, in senso sia metaforico sia letterale: “Io sono un esibizionista, a me i cori non interessano”. Questo è in realtà tipico di tutte le sue manifestazioni: volendo essere uno scrittore, certo Marco da piccolo voleva essere Malvaldi, non uno qualunque. È quindi inevitabile chiedergli qualcosa di più sulla serie che lo ha reso “riconoscibile” nel mondo della scrittura. I lettori di Prisma che la conoscono si saranno forse chiesti perché Massimo, il “barrista” protagonista dei romanzi del Barlume, sia proprio un matematico. “Volevo che Massimo fosse riconosciuto subito come una persona intelligente e capace ed è per questo che è un matematico: per me la matematica è al top delle discipline di ragionamento, volevo che Massimo fosse identificato subito come una persona che ragiona”. Inoltre, visto che dal punto di vista letterario i personaggi interessanti sono quelli che hanno delle contraddizioni, un matematico fa al caso suo perché “è convinto che il mondo debba funzionare come la matematica e tutte le volte che si rende conto che non è così ci batte i denti”. Ben lungi però dall’incarnare il matematico stereotipico che vive nel suo antro a siderale distanza dalle cose della vita, Massimo è un essere umano completo, sensibile alla procacità della socia Tiziana e fidanzato con la vicequestore Alice Martelli. E anche qui Malvaldi fa un bel lavoro: “All’inizio il Barlume era il posto di Tex Willer, poche donne che stanno lì per farsi fischiare dietro. Ma la vita reale – fortunatamente – non è così: nel momento in cui devi parlare un po’ più di realtà, e quindi crei un microcosmo che si allarga, devi considerare il fatto che statisticamente il 50% della popolazione è femminile e di questo 50% devi parlare perché questa è la realtà. Il vicequestore donna, quindi, anche se non a tutti piace, è un escamotage che rende possibile descrivere il reale”. D’altra parte, che tra i personaggi ci fosse un investigatore professionista, con uno stretto legame con gli altri protagonisti, era inevitabile per rendere credibile come Massimo e i vecchietti si imbattessero in morti ammazzati con una frequenza decisamente superiore alla norma. A quel punto scegliere un vicequestore donna, e farlo fidanzare col barrista, consentiva di prendere i classici due piccioni con una fava. Per questo Malvaldi ha sua sponte abbandonato l’originale commissario Fusco per Alice. Quello che non ha gradito per niente è che la trasposizione televisiva gli abbia cambiato i personaggi principali, Massimo e Tiziana, che nelle sue intenzioni dovrebbero incarnare due tipi diversi di intelligenza ma analogo spessore di umanità, in “uno schizzato segaiolo e una stronza col tacco 12 (originale di cui la redazione non si prende la responsabilità)”. Del resto, il primo incarna piuttosto bene l’immagine pubblica del matematico alla quale tutta la categoria cerca di opporre esempi meno stereotipati. “Capita spesso che il matematico sia identificato con lo sfigato geniale ma pazzo: in realtà io ho il forte sospetto che quelli che hanno perso il cervello facendo matematica anche prima non battessero del tutto pari”, ci dice facendoci ridere di gusto. È un umorista anche quando non scrive, c’è poco da fare. Che vira al serio quando aggiunge che “la pazzia in fondo è dare troppa importanza a un solo aspetto della propria vita e questo succede sia se fai il matematico sia se fai il parrucchiere”. Ma qual è il vero motivo per cui Malvaldi è così attratto dalla matematica? “La matematica, in particolare la teoria dei numeri, ha questa cosa bellissima, che però è anche un problema: un bambino può fare domande a cui il più grande matematico del mondo non sa rispondere. Se chiedo al più grande matematico: è vero che tutti i numeri pari sono somma di due numeri primi? Lui ti dirà: sinora non se n’è mai trovato uno che si comporta diversamente, però… non posso assicurartelo. Con una simpatica conseguenza: tutti possono ragionare di matematica (in pisano, ragionare è sinonimo di discorrere, chiacchierare, altrimenti l’espressione a molti sembrerebbe un ossimoro, ndr) credendo di essere nel giusto. Gli oggetti della teoria dei numeri sono noti a tutti: numeri interi, razionali, irrazionali, li mettiamo in colonna, ci facciamo delle operazioni. Da lì a capire come funzionano il passo è lungo. Questo per esempio ha inciso nella questione Covid: le persone erano convinte di poter far parlare i numeri, ma leggere una statistica non significa capirla. È una cosa che la matematica ti mette davanti con enorme potenza: un oggetto, per esempio, tutti noi pensiamo di conoscerlo, ma siamo sicuri di capire quale sia il suo significato?”. E racconta la storia del deputato americano Tayor Izechiel che aveva proposto di stabilire per legge che pi greco valesse esattamente 3,2 perché così i calcoli tornavano meglio. Dopo essere stato approvato all’unanimità nella Camera dei deputati l’emendamento passò al Senato e fu affossato solo perché, per puro caso, un professore di matematica della Purdue University, che aveva portato i suoi allievi in Senato perché vedessero come funzionavano le sedute, fu interpellato in proposito nei corridoi e bollò la proposta come una follia. “Questo ci fa capire che partiamo sempre dal numero, però poi il numero va pensato per quello che significa: non sono i calcoli a fare la differenza, è il senso del numero che la fa”.

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