La riscoperta delle tontine

“Vuoi partecipare a una tontine?”. D., cittadina ivoriana di stanza in Italia, sapeva che con il mio magro salario di insegnante ero in crisi economica permanente e mi aveva sentito innalzare varie geremiadi per alcune spese impreviste. Sapeva anche che sono un tipo risparmiatore, ai limiti della tirchieria. Quello che non sapeva era che non avevo la più pallida idea di che cosa fosse una tontine. Per non fare la figura dell’ignorante (oltre che tirchio, sono anche orgoglioso) presi tempo (“Boh, fammici pensare”) e, non visto, andai a cercare in rete che cosa fosse mai questa storia che non avevo mai sentito nominare.

LO SCHEMA DI TONTI

Secondo la Treccani e l’enciclopedia democratica Wikipedia, una tontina (in italiano) è uno schema di assicurazione vitalizia proposto dal banchiere napoletano Lorenzo de’ Tonti (1602-1685) alla corona francese nel 1653. La figura di questo notabile partenopeo, che fu anche governatore di Gaeta e dovette riparare in Francia dopo aver appoggiato una rivolta antispagnola, è affascinante sotto diversi aspetti. I suoi due figli furono tra i principali colonizzatori del Nord-America per conto dei francesi. Uno di loro aveva perso una mano in una battaglia navale e si era fatto installare un uncino nel moncherino (credo sia il prototipo del pirata dei romanzi inglesi). Tornando alla tontine, come la battezzò il Cardinal Mazzarino (1602-1661), secondo le fonti citate sarebbe un sistema per finanziare lo Stato con capitali privati. Acquistando una cartella di una emissione per un’alta somma, un suddito facoltoso si sarebbe conquistato una rendita vitalizia da parte dello Stato. Alla sua morte, la rendita sarebbe stata suddivisa tra gli altri sottoscrittori della medesima emissione. Alla morte dell’ultimo sottoscrittore, i proventi degli investimenti del denaro versato all’inizio sarebbero stati destinati ad un fine stabilito, solitamente benefico. Effettivamente, in Francia ci furono alcune emissioni con cui vennero finanziate le spedizioni coloniali americane. Poi, il Tesoro scoprì che non erano molto convenienti e le abbandonò. In Italia, le tontine ci sono state ma all’inizio del secolo scorso sono state vietate. Va bene, ma io che cosa c’entravo con una cosa del genere? Mica ho capitali da investire.

L’ISUSU DEGLI IBO NIGERIANI

“Ma non sono quelle lì – mi corregge la mia amica – Le hanno chiamate tontines i bianchi quando sono arrivati, ma la tontine che dico io è un’altra cosa”. Avrei dovuto pensarci: l’hanno chiamata tontine i francesi per dare un nome che conoscevano a un’istituzione economica tradizionale africana di cui non avevano capito niente. Poi il nome è rimasto. Va bene: ricominciamo le ricerche, questa volta nella direzione giusta. Salta fuori che gli ibo dell’attuale Nigeria in tempi piuttosto remoti inventarono uno schema comunitario per accumulare denaro. Cominciarono i giovani maschietti per sposarsi, che voleva dire pagare un indennizzo alla famiglia della sposa per la forza lavoro che le si toglieva portandosela via: i giovani facevano lavoretti in giro, anche al di fuori della loro famiglia e del loro clan, e ne ricevevano del denaro, magari in forma di conchiglie-moneta; questo denaro veniva depositato presso un anziano che lo custodiva fino a che non si raggiungeva la somma giusta per il matrimonio. Pian piano l’istituzione si staccò dal fine per cui era stata inventata e assunse la forma di un vero e proprio servizio finanziario comunitario: un gruppo di persone che si conoscevano bene e nutrivano reciproca fiducia si riuniva una volta ogni due settimane (ma erano settimane di 4 giorni, quadrimane) a casa di un tontineur, un personaggio stimato al quale ciascuno versava una quota eguale. Nel corso di una festosa riunione, solitamente bagnata da qualche bevanda fermentata, uno dei contribuenti riceveva l’intera somma raccolta (il bouffe, “mangia”, dicevano gli altri), meno un regalino per il disturbo del tontineur e la riunione successiva tutti tornavano a pagare la quota ed era un altro che bouffait. A turno tutti i contribuenti ricevevano la stessa somma, pari alla quota singola moltiplicata per il loro numero, che era poi pari a quanto avrebbero versato nel corso di tutto il giro; quando l’ultimo aveva ricevuto i conti tornavano pari. Insomma, per i primi la tontine era un prestito a interesse nullo, per gli ultimi era un piano di accumulo. In ogni caso, ognuno riceve in un colpo solo quanto versato a rate. Più si era, più si riceveva, ma il giro durava più tempo. E se uno non pagava? Se non aveva ancora bouffé, poco male: doveva solo cercare qualcuno che subentrasse al suo posto e che al momento della bouffe gli ridesse le quote versate. Se invece aveva già incassato, allora l’abbandono equivaleva a un tradimento e si rischiavano sanzioni serissime. La tontine è un fatto di fiducia.

LA TONTINE OGGI

Nel corso dei secoli l’istituzione si diffuse in tutta l’Africa nordoccidentale subsahariana, fino al Senegal, sebbene nelle comunità musulmane si preferisca la zakhat, la contribuzione rituale alla comunità religiosa. Oggi in Nigeria la tontine è meno praticata, mentre i flussi migratori la stanno diffondendo in Europa. È difficile stimare quando denaro sia coinvolto in queste pratiche perché si tratta di un’economia informale o comunque poco formalizzata nei termini del capitalismo istituzionale. Si tenga presente che solo il 10% circa degli africani ha un conto corrente bancario. Però, in alcuni Paesi del Golfo di Guinea ci sono addirittura associazioni registrate e società finanziarie che gestiscono le tontines. Ci sono anche state cause civili contro cattivi pagatori. I versamenti sono solitamente mensili, e quindi anche le bouffes. Le quote oscillano tra i 100 e i 300 euro, ma si possono comprare anche in società, ad esempio metà per uno. Oppure un singolo socio può comprarne più d’una, se riesce poi a pagarle tutti i mesi. Funziona: per 12 contribuenti che paghino 200 Euro ogni mese ciascuno, alla bouffe entrano in casa 2.400 Euro. Non sono pochi, fanno piacere. Ma anche chi non partecipa alle tontines ma magari insegna matematica a studenti le cui famiglie provengono dall’Africa subsahariana può avere interesse a conoscerle. Tanto per avere un’idea di che discorsi sentono i suoi allievi la sera a cena, cioè per ricostruire un po’ della loro “matematica di casa”. Così la chiamava certe volte Ubiratan D’Ambrosio, il fondatore dell’Etnomatematica.

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