Maurizio De Giovanni: la via matematica dei sentimenti

Le fiction televisive hanno accresciuto ancora di più la sua popolarità: le indagini del commissario Ricciardi con Lino Guanciale, l’affresco corale dei Bastardi di Pizzofalcone con Alessandro Gassmann nei panni dell’ispettore Lojacono, Serena Rossi che impersona l’assistente sociale Mina Settembre. Sono tre serie entrate nella classifica delle migliori otto, per consenso di pubblico e di critica, tra le cinquanta circa che la Rai produce ogni anno. All’origine di tutto questo c’è lui, Maurizio de Giovanni, sessantaquattro anni (quasi), napoletano che a Napoli, e più precisamente al Vomero, vive. Adesso, proprio in questi giorni, è uscito da Mondadori il suo ultimo romanzo: L’equazione del cuore. E la matematica c’entra, e non solo nel titolo. Anzitutto, il personaggio principale del libro è un professore di matematica di liceo in pensione. È vedovo da 12 anni e vive da solo, in una villetta di Procida, isolato e un po’ misantropo, con l’unico hobby della pesca. Ha una figlia, Cristina, con la quale conserva un rapporto non particolarmente profondo, e un nipote, Checco, che lo va a trovare a Procida una settimana all’anno e con cui intrattiene una certa familiarità quando se lo porta a pescare. Massimo comunque parla poco e non è certo un tipo affettivo. Il quadro cambia tragicamente in un giorno di novembre con una telefonata che lo avverte che la figlia e il genero sono stati vittime di un incidente stradale. Sono morti entrambi e il nipote è in coma farmacologico, molto grave.

Perché ha pensato proprio a un professore di matematica per il protagonista della sua storia? La spiegazione viene dal seguito della storia. Massimo parte per la cittadina di provincia del Nord dove figlia e genero abitavano, accolto da mille attenzioni perché di fatto è, eventualmente con il nipote, l’erede della fortuna industriale del genero. Il problema è capire in che condizioni il nipote potrebbe continuare a vivere. In ogni modo, Massimo pensa di ripartire per Procida dopo la cerimonia funebre. Viene però affrontato abbastanza duramente da Alba, la babysitter moldava di Checco, che gli rimprovera la mancanza di empatia e di sentimenti e quasi lo obbliga a comunicare con il nipote per aiutarlo a risvegliarsi dal coma. Così Massimo – la matematica, ancora – comincia a parlare delle cose che conosce: la matematica, la fisica del mondo, la sua complessità. Poi un poliziotto gli fa nascere dei dubbi sulla vera dinamica dell’incidente e Massimo comincia a indagare sulla vita del genero e della figlia.

Siamo quindi di nuovo davanti a un altro giallo di Maurizio de Giovanni? No, la storia diventa sempre più un romanzo d’amore tra il nonno e il nipote. Massimo pensa all’equazione di Dirac del 1928 e alla sua affermazione per cui due sistemi continuano a formare un unico sistema se hanno interagito tra loro per un certo periodo di tempo, anche se poi vengono separati. La matematica, la fisica, la scienza, che di solito sono rappresentate come dei territori nei quali i sentimenti non riescono a penetrare, sono lo strumento con cui Massimo avvia il suo disgelo riuscendo a ritornare ai sentimenti. Lui ci arriva per via matematica. Ma mi fermo qui. Il prosieguo della storia lo lasciamo al lettore.

Conferma, quindi, che tra letteratura e matematica non c’è quell’abisso a cui si è abituati a pensare? Non c’è nel mio romanzo, anzi! Ma non c’è neanche in generale. La scrittura di un racconto, breve o lungo che sia, è un problema di equilibrio fra tre ingredienti: la trama, l’ambientazione e i personaggi. Lo scrittore è un matematico anche nell’equilibrio tra fantasia e rispetto delle regole: è creativo nel primo passaggio della storia; poi, progressivamente, le regole dello svolgimento del romanzo quasi prendono il sopravvento e lo guidano alla conclusione.

Il commissario Lojacono, i bastardi di Pizzofalcone e molti altri romanzi e racconti gialli. Quando ha cominciato a scrivere? La mia attività di scrittore è cominciata relativamente tardi. Prima ero un funzionario di banca, al Banco di Napoli. Nel 2005, ho vinto un concorso riservato ai giallisti esordienti con la premiazione che si teneva al caffè Gambrinus di via Chiaia. Iniziano così l’anno successivo le storie del commissario Ricciardi, un uomo intuitivo e tormentato dalla sete di giustizia. Sono storie, le sue, ambientate negli anni del fascismo perché il Gambrinus mi aveva riportato con la fantasia ai decenni passati. Scrivo 3-4 libri all’anno. Sono abbastanza metodico, come è quasi naturale… per un ex funzionario di banca. Ci metto un mese a scrivere un libro, con una full immersion nelle vicende e nei personaggi di cui sto scrivendo, ma la storia magari viene da lontano e si è già sedimentata. Per esempio, l’equazione di Dirac mi aveva colpito da molto tempo ed era una decina d’anni che pensavo di utilizzarla.

Enrica è morta di parto ma le storie del commissario Ricciardi andranno avanti? Sì, forse già quest’anno. D’altra parte, l’ultimo romanzo che lo vede protagonista è stato pubblicato nel 2019.

E della fiction televisiva che lo vede protagonista è rimasto contento? Ho collaborato alla sua sceneggiatura. È stata un’esperienza molto interessante, un grande lavoro di squadra. L’esito mi è sembrato davvero buono e questo vale pure per le altre serie, anche se non dovrei essere io a dirlo. Quella che mi è piaciuta di più è però proprio la fiction di Ricciardi. Un gradino sotto i Bastardi che potevano contare su attori fantastici anche nei ruoli comprimari ma dove ogni serie riuniva in sé due romanzi.

Romanzi e fiction sono tutti ambientati a Napoli. Il suo legame con la città è molto forte? Come scrittore, esisto solo in quanto napoletano. L’equazione del cuore è la mia prima storia che nasce sempre sul territorio, a Procida, ma che si svolge poi lontano dal territorio campano. Napoli è una città che racconta storie con la musica, la poesia, i suoi racconti. È una città fantastica, l’unica città sudamericana che non sta in Sud-America. Faccio molto vita di città, frequentando le sue strade e i suoi caffè e sono molto amato. Ogni incontro è un abbraccio.

Lei a Napoli si è impegnato anche socialmente… Penso che si riferisca all’esperienza del laboratorio di scrittura nel carcere minorile di Nisida. Purtroppo è terminata ma la ricordo con molta partecipazione. Mi ha dato molto. Aiutavamo i ragazzi rinchiusi nell’istituto penale a tirar fuori le loro storie e a scriverle. Per me ha voluto dire la conoscenza di un universo molto lontano che, prima o poi, vorrei di nuovo aiutare a esprimersi.

E il futuro di Napoli? Sono ottimista. È vero che il presente non è dei più incoraggianti. I problemi sono quelli che tutti, bene o male, conoscono e l’amministrazione della città negli ultimi anni non ha aiutato a risolverli. Dico di più: il secondo mandato amministrativo del sindaco De Magistris è stato pessimo. A livello regionale, la mia valutazione è un po’ più prudente perché negli atteggiamenti di De Luca bisogna distinguere la forma dalla sostanza. Anche se non sempre è semplice. Comunque, dicevo, sono ottimista. In città avverto orgoglio, buona volontà, voglia di riprendersi. Il nuovo sindaco, Manfredi, oltre che sulle sue capacità personali, può contare su tre buone carte: la ristrutturazione del debito cittadino, i fondi derivanti dal Pnrr e quelli salva-città. Può essere il sindaco di un nuovo rinascimento.

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