Stile libero – Allo specchio

Sono un fallimento, non merito di vivere”. Così si è espressa la giovane studentessa che a Ferrara ha parlato davanti al presidente della Repubblica Sergio Mattarella, all’inaugurazione dell’anno accademico. Il suo fallimento, ha raccontato, consisteva nell’aver mancato per la seconda volta il test di medicina. L’accusa all’università italiana è di essere succube del mito della performatività e di introdurre criteri di merito nelle borse e nei provvedimenti di diritto allo studio. Di fronte a questo e ad alcune più gravi percezioni di “fallimenti”, di fronte alle crisi e addirittura ai suicidi di studenti annichiliti dall’ansia e dalle sconfitte, in università come nelle scuole, sta crescendo la domanda di interventi psicologici ad ampio raggio.
Ma cosa si chiede all’intervento psicologico? Di aumentare le difese, rafforzare la resilienza, aiutare a rendere sopportabile il differimento della gratificazione? Ma davvero vogliamo che i giovani sfidino le difficoltà e le fatiche, o che le difficoltà si appianino davanti a loro e le fatiche non li coinvolgano? Vogliamo che il mescolarsi del principio del piacere a quello della realtà sia sempre più rimandato o, se possibile, disinnescato?
L’accudimento da parte dei genitori oggi è simpatetico, prolungato, compiaciuto. Ma più si sono arrotondati gli spigoli della realtà, più diventa minacciosa, imprevedibile e incomprensibile la distanza fra le capacità di resistenza e le vicende spiacevoli e frustranti della vita che verrà.
Chi insegna sa che raramente l’esperienza del fallimento viene metabolizzata dai ragazzi riconsiderando i propri limiti, ma piuttosto accusando gli altri di incomprensione. Gli sbagli raramente sono attribuiti a una propria responsabilità invece che a complotti o malignità altrui (e su questo mood la politica è pienamente sintonizzata…). La protezione, il compiacimento, l’aspettativa concentrati sulla realizzazione del sé hanno cancellato i sensi di colpa, ma anche seminato suscettibilità e narcisismo. È venuta fuori una generazione di porcellana: preziosa e fragile. Più incline a guardarsi allo specchio, per adeguarsi a standard drammaticamente esigenti, che a cambiare il mondo.
E invece a volte bisogna proprio cambiare il mondo. Non basta cambiare le percezioni, bisogna anche cambiare la realtà. Il diritto allo studio, specie quello universitario, in Italia è gravemente sottofinanziato. La mobilità sociale da istruzione è sempre più difficile. Le prospettive di carriera in patria sono spesso umilianti. L’emigrazione dei giovani laureati, senza alcun corrispettivo in ingresso, è spaventosa. Le proiezioni sul fabbisogno di medici e specializzati le sottostimiamo drammaticamente. Le possibilità di accedere a una vita adulta autonoma sono minate da precarietà e
bassi salari.
Con tutto ciò lo studio resta anche fatica, che a volte non basta. Ho evitato fino a qui di usare la parola merito, sotterrata da una valanga di contrapposte retoriche. Diciamo che conviene alla sanità italiana che i medici siano selezionati accuratamente, fin dagli esordi. E selezionati bene.

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