“Segui il denaro…”, suggeriva Giovanni Falcone a chi voleva capire le dinamiche mafiose. Un consiglio che potrebbe valere anche su altri temi, apparentemente lontani da quelli criminali, come i cambiamenti climatici e l’ambiente. Del resto, non è forse vero che, quando un’inondazione devasta un territorio, una siccità impedisce i raccolti o un uragano distrugge una costa, stiamo subendo enormi danni ambientali ma anche enormi perdite di denaro? Ecco che seguire il denaro può voler dire anche calcolare quanto ci costa agire (ma soprattutto non agire) per contrastare i cambiamenti climatici.
NASCE IL CONCETTO DI SOCIAL COST OF CARBON
È il 2010 quando viene concepito un parametro numerico per stimare il costo dell’inazione climatica. È il Social cost of carbon (Scc), definito dal suo creatore Michael Greenstone (ex capo economista dell’amministrazione Obama) come il “numero più importante di cui non hai mai sentito parlare”. Da quel momento, il Costo sociale del carbonio è diventato un parametro cruciale specialmente per gli Usa, dove rappresenta un fattore vincolante per le politiche industriali, energetiche e ambientali. Un riferimento talmente importante da diventare terreno di scontro per le ultime tre amministrazioni, che hanno fatto del suo valore numerico quasi una bandiera ideologica del diverso approccio al tema ambientale. Basti pensare che, nel suo primo giorno da Presidente, Joe Biden istituì un gruppo di lavoro per assegnare un valore provvisorio al Scc, in attesa di determinarne con precisione quello ufficiale che sarà pubblicato a gennaio 2022. Così, al Scc fu attribuito il valore provvisorio di 51 dollari, pari a quello utilizzato da Obama ma molto superiore a quello stabilito da Trump, oscillante tra 1 e 7 dollari. Tra poco vedremo cosa vuol dire questa differenza, ma prima c’è da capire cos’è e perché è tanto importante questo numero.
CHE COS’È IL SCC
In maniera semplificata, il Costo sociale del carbonio corrisponde al valore economico dei danni prodotti dagli eventi climatici avversi derivanti dall’immissione in atmosfera di una tonnellata di CO2 o altro gas che altera il clima. In pratica, permette di stimare i costi dei danni rispetto ai costi necessari per cercare di evitarli. Proviamo a guardare le cose proprio da questo punto di vista. Nel solo 2021 gli Usa sono stati colpiti da 18 grandi disastri climatici costati oltre 1 miliardo di dollari ciascuno in danni a case, aziende, infrastrutture e terreni agricoli. Secondo la National oceanic and atmospheric administration (Noaa), da quando si tiene traccia di questi eventi (1980), gli Stati Uniti hanno subito 308 disastri simili, con danni complessivi superiori ai 2 trilioni di dollari. Ecco spiegata, allora, la necessità di introdurre un parametro come il Scc ed ecco anche cosa significano le differenze tra i valori ad esso assegnati: più alto è il Scc, più peso si sta attribuendo ai rischi del cambiamento climatico e quindi più sono stringenti (e costose) le norme ambientali da rispettare per evitarli. Ora dovrebbe essere chiaro perché Obama e Biden hanno calcolato in 51 dollari a tonnellata il Scc, contro i 7 al massimo di Trump. Per capire davvero come interpretare il Social cost of carbon è importante, però, comprendere come si calcola.
UN APPROCCIO INTEGRATO
I dati di partenza vengono inseriti in alcuni modelli matematici che collegano in un quadro d’insieme le caratteristiche sociali, economiche e fisiche dello scenario sotto osservazione. Questi modelli sono chiamati di approccio integrato perché integrano quattro diversi tipi di informazioni: scenari socioeconomici (ad esempio, quale sarà la popolazione in un certo anno? Quanto crescerà l’economia e quanta emissione di carbonio comporterà?), scenari climatici (con quale velocità aumenteranno i livelli dei mari e le temperature?), costi e benefici (come influirà il cambiamento climatico sulla capacità dei sistemi economici di produrre ricchezza e benessere?) e, infine, il tasso di sconto. I primi tre sono elementi molto variabili e quindi difficilmente prevedibili tant’è che, per determinarli, si ricorre a diverse ipotesi o narrazioni e non a previsioni. L’ultimo, invece, è in qualche misura controllabile da noi e ha anche una valenza etica. Indica quanto la società è disposta a rinunciare ai propri benefici attuali a favore di quelli delle generazioni future. Il tasso di sconto è un parametro chiave per determinare il Scc e di conseguenza l’impegno di politica climatica. Basti considerare che una tonnellata di CO2 emessa oggi produce danni per molti anni a venire. Pertanto, la riduzione delle emissioni consente di evitare danni in futuro ma impone di pagare il suo costo oggi. In altre parole, un alto tasso di sconto (e cioè una preferenza per il presente) spinge a spendere meno denaro oggi in politica climatica, ma addossa ai posteri i maggiori costi derivanti da tale inazione. Al contrario, un basso tasso di sconto indica la volontà di spendere di più oggi per proteggere le generazioni future. È significativo che con l’amministrazione Biden il tasso di sconto sia stato fissato al 3% (lo stesso di Obama), mentre Trump l’aveva portato al 7%.
Il Scc ha però un grosso limite. Per sua stessa natura, dipende da fattori incerti e in parte soggettivi per cui oscilla in una forbice molto ampia che si presta a scelte diverse, come nel caso delle amministrazioni americane.
In Europa (e di conseguenza in Italia) si segue un approccio diverso. Non si utilizza un valore monetario univoco per prezzare il carbonio, mentre le politiche di mitigazione vengono definite dalla comunità scientifica nel suo complesso per contrastare in modo adeguato l’aumento della temperatura.
MODELLI MATEMATICI EUROPEI
Secondo Francesco Bosello, professore di Economia presso il Dipartimento di Scienze ambientali, informatica e statistica dell’università Ca’ Foscari di Venezia e co-direttore dello European Institute of Economics and the Environment (Eiee), “il Costo sociale del carbonio non è un concetto solo americano ma è usato ovunque dalla comunità scientifica”. Tra i modelli matematici usati per calcolare il Scc (anche negli Stati Uniti) due su tre sono europei: il Page e il Fund, quelli che chiamiamo modelli ad approccio integrato perché rappresentano in modo integrato il funzionamento del clima e dell’economia. Il terzo modello, chiamato Dice, fu sviluppato negli anni ’90 dal premio Nobel per l’economia William Nordhaus e da allora è stato costantemente migliorato. “La vera differenza con gli Usa – riprende Bosello – è che da noi, quando occorre realizzare progetti che possono avere rilevanza ambientale, l’uso del Scc non viene imposto come strumento di valutazione del potenziale danno provocato ma ciò non vuol dire che non utilizziamo questo concetto. Per le politiche climatiche, l’Italia si adegua agli obiettivi europei e l’Europa è un esempio virtuoso, con i suoi traguardi caratterizzati da un progressivo rafforzamento delle politiche di mitigazione basate sulle indicazioni della comunità scientifica. L’intento principale è ridurre al minimo la probabilità di avere eventi catastrofici irreversibili. Adesso il nostro target è contenere l’aumento di temperatura entro 1,5°C per la fine del secolo, come ribadito dalla COP 26 di Glasgow. Però attenzione, non c’è conflitto tra i due approcci perché l’obiettivo degli 1,5°C non è indipendente dalle valutazioni della comunità scientifica che quantifica il Social cost of carbon”. Insomma, la differenza principale è che negli Usa viene fissato un valore preciso per il Scc anche come elemento di segnalazione, mentre da noi ha più enfasi l’obiettivo finale di contenere l’aumento della temperatura. Questo, a cascata, definisce anche il contenimento delle emissioni perché la temperatura dipende dalla concentrazione di CO2 in atmosfera. Quindi da noi il decisore politico ha di fronte dei vincoli sulle emissioni che, in seguito, a un bilancio costi-benefici, vengono ritenuti giustificati.
“Dal punto di vista matematico – aggiunge Bosello – per calcolare costi e benefici ci sono varie metodologie. Una di queste, come accennato, è costituita dai modelli ad approccio integrato. Sostanzialmente si tratta di sistemi di equazioni differenziali che contengono una descrizione matematica del funzionamento del sistema economico, accoppiata a una descrizione del funzionamento climatico. Semplificando, il modulo economico descrive la crescita dell’economia e valuta le emissioni di gas climalteranti come suo sottoprodotto; il modulo climatico prende le emissioni calcolate da quello economico e le trasforma in aumento di temperatura: a sua volta il modulo economico (chiudendo il cerchio) prende questo aumento di temperatura e lo traduce in un danno economico”. Questo sistema valuta quanto convenga emettere a fronte del danno che l’aumento di temperatura originato da queste emissioni provoca al sistema economico. Ed è questo il punto fondamentale: “La funzione matematica (detta funzione di danno), che lega la temperatura al danno economico, determina in pratica il costo sociale del carbonio. L’attuale amministrazione Usa, ad esempio, prende a riferimento i 51 dollari ma gli stessi modelli possono produrre stime di costo molto maggiori, anche con valori compresi tra i 200 e i 300 dollari. In tutto questo, bisogna tener conto anche delle eventuali irreversibilità del sistema climatico (effetti oltre i quali non c’è possibilità di recupero spontaneo da parte dell’ambiente) e del potenziale verificarsi di effetti catastrofici che, pur avendo probabilità molto bassa, avrebbero costi elevatissimi se si verificassero”. Un classico esempio è il collasso dei ghiacci della Groenlandia che potrebbe provocare un innalzamento del livello del mare di 7 metri. “Questi eventi sono più difficili da catturare e da valutare con i modelli. Pertanto, la politica climatica non può più essere basata solo sull’analisi costi-benefici che questi esprimono. È invece necessario adottare un approccio prudenziale o precauzionale che sia in grado di evitare, o quantomeno di ridurre a una probabilità accettabile, il verificarsi dell’esito peggiore per noi e i nostri figli”.