Se sentisse le (discutibili) polemiche di questi ultimi mesi relative alle presunta privazione della libertà in tempi di Covid, probabilmente Mariasilvia Spolato ci riderebbe sopra. Quanto meno, rifletterebbe su come i tempi siano cambiati. Mariasilvia è morta nell’ottobre del 2018 e lo ha fatto come aveva vissuto. Sola, ma da donna libera. Matematica (si era laureata con 110 e lode) e attivista per i diritti civili, è stata la prima donna a dichiarare la propria omosessualità. Pagandone le conseguenze in maniera terribile. Venne cacciata da casa, le venne sottratta con infamia la cattedra e, infine, venne abbandonata anche dalla donna che amava. È finita per strada ingrossando le fila dei senzatetto e per molti anni ha vagato per le strade di Bolzano, sempre alla ricerca di libri e giornali da leggere. Una vita in fuga, quella di Mariasilvia: non si lavava, non accettava cure, non chiedeva soldi – al massimo una sigaretta – e non voleva aiuti, sopportando silenziosamente i maltrattamenti di chi per strada si divertiva a tormentarla. Poi, negli anni Novanta, si ammalò: una cancrena alla gamba. Venne ricoverata e per la prima volta – forse perché ormai stanca della vita di strada – permise ai servizi sociali di prendersi cura di lei.
C’è una data che fa da spartiacque nella vita di Mariasilvia Spolato, l’8 marzo 1972. Quel giorno molte donne (tra loro anche Jane Fonda, attivista e attrice americana) scesero in piazza a Roma, a Campo de’ Fiori. Mariasilvia Spolato sfilò con la scritta “Liberazione omosessuale”: era il primo atto di visibilità omosessuale femminile in una piazza italiana. Quella foto finì sulle pagine del settimanale Panorama, ampliando la portata di un gesto che ne segnò inesorabilmente la vita. E pensare che Mariasilvia da giovane laureata in matematica aveva tutte le carte in regola per una carriera accademica. Alla fine degli anni Sessanta aveva pubblicato dei manuali per Fabbri e Zanichelli. Ma la sua profonda coerenza la portò a dichiarare nel 1972 il suo amore per un’altra donna. Ebbe inizio una lunga vita da clochard e la caduta nell’anonimato. “La vedevo – racconta il giornalista Luca Fregona a cui si deve il merito di aver riportato alla luce la storia di Mariasilvia sulle pagine del quotidiano Alto Adige – con i suoi borsoni a tracolla, la giacca a vento e il berretto di lana calato in testa, vagare per parchi e strade o dormire in stazione. Nell’ultimo periodo, girava in città utilizzando un carrello della spesa per trasportare tutto. Era sempre intenta a leggere qualcosa o a fare i cruciverba. Non era scontrosa, ma non parlava volentieri. Se ti fermava, era solo per chiederti una sigaretta”.
Era nata a Padova il 25 giugno 1935 e dopo la laurea si era trasferita a Milano dove aveva lavorato all’Ufficio tecnico della Pirelli, aveva partecipato alla protesta del 1968 e fondato nel 1971 il Flo (Fronte di Liberazione Omosessuale). Qualcuno pensa che dietro quella sigla in realtà ci fosse solo lei, e che la usasse per firmare volantini distribuiti nell’attesa di aggregare altre donne. Il Flo confluì poi nel Fronte Unitario Omosessuale Rivoluzionario Italiano (Fuori) e Mariasilvia fondò assieme ad Angelo Pezzana l’omonima rivista, portavoce dell’organizzazione. Nell’enciclopedia delle donne, da cui abbiamo tratto gran parte delle informazioni che leggete, Maria Gaballo la ricorda come “un’attivista impegnata e agguerrita”. Fu lei a lanciare l’allarme riguardo al convegno di sessuologia in programma nell’aprile 1972 a Sanremo e che aveva come oggetto la “cura dell’omosessualità”, congresso che gli attivisti riuscirono a far chiudere anticipatamente organizzando una manifestazione di lesbiche e gay, con militanti arrivati anche dall’Inghilterra, dal Belgio e dalla Francia.
Trasferitasi a Roma, dopo aver intrapreso la carriera dell’insegnamento, frequentò il collettivo femminista di via Pompeo Magno. Secondo lei, le lesbiche avrebbero dovuto liberarsi dalla “doppia oppressione” che subivano in quanto donne e omosessuali. Per questo, nella Capitale partecipò al movimento omosessuale e a quello femminista. Donna dai moltissimi interessi, amava scrivere: fu lei a pubblicare “la prima poesia lesbica del neofemminismo italiano”, seguita dal libro I movimenti omosessuali di liberazione. Documenti, testimonianze e foto della rivoluzione omosessuale (Samonà e Savelli, 1972); collaborò anche a varie riviste di settore e utilizzò la fotografia – altra sua grande passione – come mezzo espressivo.
In un certo senso, fu proprio l’amore per la fotografia che la tolse dall’anonimato. Avvenne quando il fotografo Lorenzo Zambello decise di fare un servizio nella casa di riposo “Villa Armonia”, la struttura dove dagli anni Novanta Mariasilvia aveva accettato di essere ospitata: “Mentre facevo ritratti degli ospiti, è stata lei a venire da me”. Iniziò a parlare di fotografia – era lei che di solito immortalava i volti della casa di riposo – e anche a raccontare qualcosa di sé e della sua prima vita. Ci erano voluti tre anni prima che Mariasilvia ricominciasse a fidarsi di chi diceva di volerla aiutare. Pochi minuti, invece, furono sufficienti per riportala alla fama che meritava.