La normalità della scienza è la sua forza

Gli immunologi dicono che i vaccini sono sicuri per la maggior parte delle persone. Allo stesso modo, gli esperti del clima dicono che l’accumulo di gas serra nell’atmosfera sta surriscaldando il pianeta, provocando l’innalzamento del livello dei mari e causando fenomeni meteorologici estremi. Come facciamo a sapere che non si sbagliano? In generale, come possiamo valutare la verità delle affermazioni scientifiche sapendo che non sarebbe la prima volta che la scienza si è sbagliata e gli scienziati hanno preso delle cantonate? A queste domande prova a rispondere Naomi Oreskes nel suo Why Trust Science?, recentemente tradotto da Bollati Boringhieri con il titolo Perché fidarsi della scienza?

La risposta alla domanda che compare nel titolo è accompagnata da un agile “riassunto“ del dibattito filosofico, nel corso dei secoli, sul valore e i limiti della conoscenza scientifica: da Hume a Kant e poi nel ’900 a Popper, Duhem, Quine, Kuhn, Feyerabend e la scuola sociologica di Edimburgo. Domande e risposte sono poi illustrate con alcuni casi, di diversa portata. Tutti mostrano come la scienza possa effettivamente prendere degli abbagli: la teoria dell’energia limitata, il problema della deriva dei continenti, l’eugenetica, il rapporto tra metodi contraccettivi ormonali e depressione, il filo interdentale.

Naomi Oreskes è docente di storia della scienza ad Harvard e non è nuova a trattare temi di questo genere. Il suo precedente libro è Mercanti di dubbi, scritto con E.M. Conway e tradotto in italiano da Feltrinelli, da cui è stato tratto nel 2015 il film omonimo che denuncia il comportamento di alcuni scienziati e istituti che hanno usato la scienza in modo distorto per nascondere la verità sulla nocività del fumo, sul cambiamento climatico e il riscaldamento globale.

Naomi Oreskes sta dalla parte della scienza, come tutta la sua vita professionale e i libri che ha scritto dimostrano; pensa che della scienza ci si debba fidare e che è dalla scienza che vengono tutte le innovazioni che aiutano a migliorare la qualità della nostra vita. Crede però anche che le ragioni di chi della scienza non si fida vadano prese sul serio. E per tutta una serie di motivi. Il primo è che la scienza può effettivamente sbagliarsi, come i casi storici citati nel libro stanno a ricordarci: gli scienziati non sono sempre stati dalla parte giusta e chiunque abbia a cuore la scienza deve riconoscerlo. In secondo luogo, lo scetticismo antiscientifico ha un suo bacino di cultori niente affatto trascurabile, che non serve e non è corretto descrivere come ingenua preda delle forze politiche più conservatrici e retrive.

Certo, negli Usa sono molti i repubblicani (a partire dall’ex-presidente Trump e dal suo vice Pence) che non credono nella scienza, ma gli scettici annoverano pure non pochi democratici. Anche a sinistra, diremmo noi, ci sono i no-vax! Lo scetticismo antiscientifico è arrivato a imporre in alcuni Stati americani la legittimità di una diversa (pseudo) scienza: lo Stato del Tennessee ha promulgato una legge che permette che nelle lezioni di scienze si insegni il creazionismo! Infine – osserva Naomi Oreskes – negli anni, in molti hanno seguito qualche corso di filosofia della scienza, a scuola o all’università, o letto qualche libro su temi epistemologici e ricordano, magari vagamente, Popper e la sua nozione di falsificabilità. E allora, se le nostre teorie scientifiche sono destinate a essere confutate, perché dovremmo crederci? Il fatto che abbiamo letto da qualche parte che le teorie scientifiche sono incommensurabili e che gli scienziati possano abbandonare una visione del mondo per sostituirla con un’altra non ispira certo fiducia nella convinzione che i processi scientifici forniscano una visione del mondo attendibile.

Di fronte a questo scetticismo non basta rispondere che bisogna credere nella scienza perché le sue ricette funzionano. Ci sono nella storia della scienza molti esempi di teorie che non erano vere e che pure, per la presenza di fatti concomitanti, portavano ad applicazioni che funzionavano. E allora: perché fidarsi della scienza? Per Naomi Oreskes la risposta può venire dalla riflessione femminista e di alcune filosofie della scienza partite dalla convinzione che il lavoro dello scienziato è per molti versi simile a quello svolto da altri gruppi sociali e dall’osservazione che “il modo in cui vediamo le cose dipende in gran parte della nostra posizione sociale (o, per dirla in maniera più colloquiale, da dove siamo seduti)”. Dunque, un gruppo diversificato metterà in campo un numero superiore di prospettive rispetto a un gruppo più omogeneo. Maggiori sono la diversità e l’apertura di una comunità e più forti sono i suoi protocolli a garanzia di un dibattito libero e aperto. Maggiore sarà anche il grado di obiettività che potrà raggiungere palesando i propri preconcetti e presupposti di partenza e maggiore sarà, nel caso degli scienziati, la possibilità che possano correggersi gli uni con gli altri.

Ma questo dove ci porta? Rimane la domanda: se gli scienziati sono persone normali che fanno un lavoro normale (come ad esempio fa un idraulico) e le nostre teorie scientifiche sono fallibili e soggette a cambiamento, su che cosa si basa la fiducia nella scienza? Ed ecco la risposta di Naomi Oreskes: sulla sua continua interazione con il mondo e sul suo carattere sociale. Per risolvere il guasto che abbiamo in bagno, ci rivolgiamo all’idraulico perché lo riteniamo la persona competente a risolvere il nostro guaio: “È proprio in virtù della loro competenza che ci affidiamo agli esperti, affinché facciano il lavoro per cui loro sono qualificati e noi no. Senza questa fiducia negli esperti, la società rimarrebbe immobile. Scienziati e scienziate sono gli esperti designati a studiare il mondo. Dunque, se dobbiamo fidarci di qualcuno perché ci parli del mondo, dobbiamo fidarci degli scienziati”. Ma non può essere una fiducia cieca. Dobbiamo controllare le loro referenze, così come telefoniamo agli amici per sapere se conoscono l’idraulico che stiamo per chiamare e ce lo consigliano. È qui che entrano in gioco la pluralità dei punti di vista invocata dalle filosofie femministe, le critiche e le correzioni che gli scienziati si fanno tra di loro e le spiegazioni che danno al resto della società: “Una comunità omogenea farà fatica a rendersi conto di quali, fra le sue convinzioni, sono legittimate dall’evidenza e quali non lo sono. Dopo tutto, così come è difficile accorgersi del proprio accento, lo è anche riconoscere i pregiudizi condivisi. Una comunità con valori diversificati individuerà e contrasterà più facilmente le credenze pregiudiziali incorporate nelle teorie scientifiche o che si fingono tali”.

È uno dei passi più significativi, e anche più belli, del libro: “Chi critica gli sforzi compiuti per rendere la scienza più diversificata ribadisce talvolta che l’unico criterio significativo in ambito scientifico è “l’eccellenza“. Secondo queste persone, la scienza si fonda sulla meritocrazia e le riflessioni demografiche non devono trovarvi posto. Tali critici sembrano pensare che le richieste di diversità siano soltanto politiche e che costruire comunità diversificate non abbia alcun valore intellettuale di per sé. Le storie qui narrate confutano questa convinzione; suggeriscono anzi che la diversità può tradursi in un risultato intellettuale più rigoroso, incoraggiando disamine critiche capaci di rivelare i pregiudizi sociali nascosti”.

L’affermazione non può essere dimostrata, perché in ambito scientifico non esiste un preciso criterio di misurazione ma nel mondo degli affari, nel quale i parametri di successo esistono, “alcuni studi rigorosi hanno dimostrato che team diversificati ottengono risultati migliori in termini sia qualitativi, come l’apporto di creatività, sia quantitativi, per esempio i numeri di vendita”. È quindi necessario che la comunità scientifica presti attenzione al grado di diversità e di apertura nelle proprie fila e sia disposta ad accogliere nuove idee, soprattutto se convalidate dall’evidenza empirica o da nuovi concetti teorici. È importante essere severi, con se stessi e i colleghi, ma forse essere aperti lo è ancora di più. Per superare lo scetticismo antiscientifico occorre presentare l’impresa scientifica qual è, un’attività comunitaria di esperti che impiegano metodi diversi per raccogliere evidenze empiriche e passare al vaglio le conclusioni che ne traggono. Con tutta l’umiltà e l’auto-scetticismo di cui è bene che la comunità scientifica si doti.

Per Naomi Oreskes, il pluralismo e la diversità di punti di vista sono una ricchezza e una garanzia. Non c’è il pericolo della torre di Babele, che si parlino lingue troppo diverse e che non ci si capisca, perché gli uomini di scienza hanno una base molto ampia di valori comuni. Anzitutto, bisogna allora precisare che gli scienziati hanno dei valori in cui credono e che ispirano la loro attività. Loro tendono a minimizzarne la presenza perché pensano che turbino l’oggettività della ricerca e vengano confusi con le scelte politiche o addirittura partitiche. Ma i valori sono ben presenti tra gli scienziati, e per fortuna: “Vi fidereste di qualcuno che non ha valori?“. Di recente, “alcuni scienziati hanno cominciato a dichiarare pubblicamente i propri valori, in parte, secondo me, perché credono che questi siano ampiamente condivisi e possano dunque costituire una base sulla quale costruire legami di fiducia. Trovo che abbiano ragione”. Sono anche valori belli, da condividere: “La maggior parte degli scienziati che conosco vuole prevenire le malattie e migliorare la salute umana, rafforzare l’economia mediante l’innovazione e le nuove scoperte e proteggere le bellezze naturali dell’America e del mondo”. Anche se ci scontriamo su molte questioni politiche, conclude l’autrice, “i nostri valori essenziali, in larga parte, coincidono. Nella misura in cui riusciamo a chiarire queste aree di intesa – e a spiegare in che modo sono in relazione con il lavoro scientifico – potremmo anche riuscire a superare i sentimenti di scetticismo e sfiducia che spesso prevalgono“.

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