L’ultimo tramonto nel deserto bianco

Quando sulla base Concordia cala il buio della lunga notte polare, il termometro registra -72°C. È il 4 maggio e il sole tramonta lasciando i 12 “invernanti” o “winter over” – così viene definito lo staff che rimane in completo isolamento per proseguire le attività scientifiche e gestire la base durante l’inverno polare – con una certezza: il sole tornerà a illuminare il cielo sopra Dome C solo ad agosto. Dome C si trova sul plateau antartico orientale, a 1.670 chilometri dal Polo Sud, sopra 3.200 metri di ghiaccio e neve. È il deserto bianco dove nel 1998 è iniziata la costruzione di Concordia, la base italo-francese in Antartide che, dal 2005, è aperta ininterrottamente, anche quando le temperature proibitive e l’isolamento geografico lo rendono un luogo quasi alieno. «Il 3 maggio abbiamo assistito all’ultima alba e all’ultimo tramonto, poi il sole non è più apparso sopra l’orizzonte e progressivamente le ore di buio sono aumentate, lasciandoci sotto un cielo sempre stellato: fino alla nuova alba che ci sarà il 12 agosto. La temperatura via via si è abbassata ulteriormente raggiungendo anche i -102°C gradi windchill (percepiti a causa del vento) e il buio l’ha fatta da padrone», racconta Rodolfo Canestrari, fisico dell’Istituto di Astrofisica spaziale e fisica cosmica di Palermo e capo della XVII spedizione invernale del Pnra, il Programma Nazionale di Ricerche in Antartide finanziato dal Ministero dell’Università e Ricerca e coordinato da Enea, per l’organizzazione logistica, e dal Cnr per gli aspetti scientifici.

Rodolfo Canestrari, 41 anni a settembre, di Fano (Pu), è alla sua prima missione al Polo Sud ed è entusiasta dell’esperienza, umana e scientifica, che sta vivendo ai confini del mondo: il continente antartico, infatti, con le temperature più basse del pianeta, la quota media di circa 3.000 metri sul livello del mare e la grande distanza da qualsiasi altro continente, è considerato il luogo più remoto e inospitale. «Siamo qui dal 13 novembre. A fine gennaio si è conclusa la XXXVI spedizione estiva del Pnra ed è iniziata la nostra campagna invernale che ci vedrà impegnati fino al prossimo novembre».

«Ora (è giugno quando ci colleghiamo con la base Concordia, ndr) il buio dell’inverno australe è rotto solo dal ghiaccio che si illumina riflettendo il cielo stellato e dal lieve chiarore che intorno alle undici del mattino compare basso all’orizzonte e ci consente di uscire per un po’ anche senza le luci frontali».
«Ma anche dalla magia delle aurore» aggiunge David Tosolini, 44 anni, di Nimis (Ud), alla seconda esperienza alla base Concordia. Lui, in qualità di Ict manager, ha il compito di assicurare il funzionamento di tutti gli apparati elettronici e di comunicazione. «Le aurore sono fantastiche – dice – infiammano il cielo sopra Dome C. Un cielo che è sconfinato e ci avvolge a 360 gradi». Concordia è una delle due basi scientifiche italiane in Antartide. L’altra, la Stazione Mario Zucchelli, si trova sulla costa, sul Mare di Ross, a oltre 1.000 chilometri di distanza, ed è aperta durante l’estate australe, da novembre a marzo.

Concordia invece è sempre operativa e le sue due torri cilindriche che svettano nell’immensa distesa di ghiaccio sono, insieme alle altre strutture della base, l’unica macchia di colore.

Durante la campagna invernale la base è completamente isolata geograficamente. E gli invernanti (quest’anno sono sei italiani, cinque francesi e il medico inglese dell’Agenzia Spaziale Europea) devono contare sulle proprie forze. «La nostra connessione con l’esterno si basa su due cavi – uno per i dati e uno elettrico – che collegano la base a una parabola di quattro metri di diametro che ci consente di comunicare. Per il resto – spiega Tosolini – la base è irraggiungibile e questo vuol dire che dobbiamo essere completamente autonomi e autosufficienti, non possiamo ricevere alcun soccorso e non possiamo evacuare».

Le condizioni sono estreme: la temperatura esterna può arrivare fino a -80°C, ma per l’“effetto vento” quella percepita può scendere anche a meno 100. Dome C, del resto, proprio per le sue caratteristiche estreme è stato scelto quale luogo ideale dove costruire una base scientifica e condurre studi sul clima: è stato raggiunto per la prima volta nel 1992, durante l’estate australe, da un gruppo italo-francese alla ricerca del luogo più adatto per eseguire una perforazione della calotta glaciale e prelevare campioni di ghiaccio antichissimo. «E così oggi qui si studia il clima ma non solo: perché osservatori permanenti consentono di studiare la radiazione solare, i gas presenti in atmosfera, condurre ricerche nel campo dell’astronomia e dell’astrofisica, del geomagnetismo e della sismologia» puntualizza Canestrari. Inoltre, Dome C è considerato un sito strategico per gli studi di simulazione di sopravvivenza nello spazio, e infatti l’Esa monitora il personale invernante per valutare l’adattamento psico-fisico a condizioni in fondo simili a quelle di una missione interplanetaria. Perché vivere alla base Concordia non significa fare i conti solo con il freddo estremo. Ipossia, isolamento, nessuna forma di vita, assenza di alternanza giorno-notte sono altri fattori che possono mettere a dura prova la resistenza fisica e psichica. Nonostante ci si trovi su una distesa di ghiaccio, qui l’aria secca, la bassa pressione atmosferica, le precipitazioni quasi nulle rendono il clima paragonabile a quello del deserto del Sahara.

E la carenza di ossigeno e l’assenza di umidità si fanno sentire anche nei piccoli gesti quotidiani. «Ogni cosa, infatti, diventa complicata se paragonata alla vita che facciamo abitualmente nelle nostre case. Respiri in maniera diversa, fai movimenti in maniera diversa, ti stanchi prima. All’inizio l’impatto è duro. Ti ritrovi a dover gestire il fiato corto, una continua sensazione di affanno e un freddo che sembra insostenibile. Nel corso dei mesi però ti abitui e finisci con il sentirti a casa» aggiunge Tosolini.

Via via dunque ci si adatta e gli invernanti, con la loro classica divisa rossa (blu per il personale francese), si spostano da una torre all’altra e vanno nei container esterni (shelter), per condurre le attività di ricerca e manutenzione.

Sopraelevate a circa cinque metri dalla neve, le due torri sono unite da un passaggio coperto. Se dall’esterno sembrano praticamente identiche, all’interno non lo sono. La torre a sinistra è silenziosa: nei tre piani ospita l’ospedale, la sala comune con computer e l’accesso a internet, le camere e gli uffici. Nell’altra invece la quotidianità è più frenetica: ci sono l’officina, i locali tecnici e quelli per il trattamento delle acque e per lo smaltimento dei rifiuti, la centrale elettrica, i magazzini per la conservazione del cibo, la palestra, la cucina, la mensa e l’area ricreativa con biblioteca e impianto multimediale per vedere film e ascoltare musica. «Sono proprio i pasti e le attività lavorative e ricreative a scandire le nostre giornate: vivendo immersi nel buio, senza alternanza giorno-notte, per noi è difficile percepire lo scorrere del tempo» commenta Canestrari. «Quando ci svegliamo è buio. Quando pranziamo è buio…».
Eppure non c’è spazio per la noia, tra esperimenti, raccolta e trasmissione dei dati, pulizia delle attrezzature, partite a biliardino o a ping-pong, Star Trek alla tv, un buon libro e videoconferenze con le scuole. «Con regolarità, al mattino usciamo all’esterno per controllare gli osservatori geomagnetici, ionosferici e meteorologici ed effettuarne la manutenzione: è fondamentale rimuovere la neve che, accumulandosi, renderebbe inaffidabili le misurazioni. A volte questo significa salire, opportunamente imbragati, su tralicci di 45 metri» racconta il fisico dell’Iasf di Palermo e station-leader di Concordia. Ogni giorno, inoltre, a meno che condizioni meteo estreme lo impediscano, c’è da gestire il lancio di radiosonde per lo studio dell’atmosfera: «Il pallone sonda rileva quotidianamente dati relativi a temperatura e umidità dell’aria, pressione, direzione e velocità del vento, che vengono condivisi su database internazionali e usati per la creazione dei modelli climatologici». Uscire implica una lunga vestizione e il rispetto di rigide procedure di sicurezza a cominciare dall’essere in coppia e sempre monitorati dall’interno. Non è la temperatura proibitiva, ma il vento a rimandare eventualmente un’attività fuori dalla base, perché riducendo drasticamente la visibilità compromette la sicurezza. «Per il freddo invece siamo attrezzati: indossiamo strati su strati di indumenti termici, guanti, sottoguanti, moffole imbottite, passamontagna… e stivali dotati di tre strati di materiale isolante: un po’ come indossare tre scarponi uno dentro l’altro. Fare ciò che facciamo non ci fa pesare però quei dieci chili che ci portiamo addosso ogni volta».

«Io sono una sorta di guardiano del faro» dice Tosolini. «Monitoro ogni uscita, seguendo ogni operazione con le telecamere a infrarosso e contattando ogni mezz’ora via radio chi è in esterna».

«Questa – conclude – è la mia seconda esperienza in Antartide dopo la campagna estiva del 2018-2019: da allora, tornato in Italia, non vedevo l’ora di ripartire per il continente bianco, spinto da quell’istinto di Ulisse di “seguir virtute e canoscenza”. Vivere qui, sul plateau antartico, è un’esperienza impegnativa ma unica: indimenticabile».

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