La guerra in Ucraina rischia di scatenare una catastrofe alimentare. Per rispondere a quest’emergenza, i diversi governi stanno pensando a nuove strategie di approvvigionamento riconsiderando le catene mondiali di fornitura
Il conflitto russo-ucraino ha fatto saltare molte catene globali della produzione e della fornitura. Ma, mentre nel ricco Occidente ci si preoccupa soprattutto del gas, del petrolio e del caro energia, decine di nazioni in via di sviluppo combattono contro una nuova ondata di fame e carestia che potrebbe colpire centinaia di milioni di persone.
Il traumatico cambio di paradigma ruota attorno alla crisi dei cereali e sta ridefinendo sia le strategie di produzione agricola sia quelle di approvvigionamento per far fronte all’insicurezza alimentare. Prima dell’invasione, l’Ucraina da sola rappresentava rispettivamente il 12% e il 16% delle esportazioni mondiali di grano e mais, ma pure il 25% di orzo e metà della produzione globale di olio di semi di girasole, un dato che saliva quasi all’80% sommando Kiev e Mosca. Dalla Fao calcolano che Ucraina e Russia contribuiscono al 30% del mercato planetario del grano, mentre oltre 50 Paesi dipendono per almeno il 30% del loro fabbisogno dal grano delle due nazioni in guerra, con picchi tra il 70% e il 100% in numerosi Stati dell’Africa e dell’area del Mediterraneo.
Le ripercussioni della guerra, secondo le previsioni, sono pesantissime se si pensa che circa la metà del grano invernale e il 38% della segale, che avrebbero dovuto essere raccolti tra luglio e agosto 2022, si trovano in aree occupate, colpite da conflitti o fortemente contaminate da ordigni esplosivi. Il governo ucraino, dal canto suo, stima in 20 milioni di tonnellate i cereali bloccati nei porti e in altri 50 milioni di tonnellate i cereali e i generi alimentari fermi a causa dell’occupazione. Una quantità interdetta all’esportazione che potrebbe arrivare a 75 milioni di tonnellate alla fine dell’autunno.
Secondo le Nazioni unite, nel mondo 811 milioni di persone hanno affrontato la fame nel 2020, con un tasso di denutrizione salito al 9,9% dall’8,4% del 2019. Tuttavia sono circa 2,3 miliardi gli individui senza un’alimentazione adeguata. Uno scenario che la guerra in Ucraina potrebbe aggravare per almeno 250-300 milioni di persone.
La parola d’ordine, a questo punto, è accelerare il ripensamento delle catene mondiali di fornitura del cibo, innanzitutto accorciandole. Meno globalizzazione, dunque, e più spazio alla regionalizzazione e alle produzioni locali. Questo deve andare di pari passo con un’agricoltura più sostenibile che consenta di recuperare e bonificare il suolo. A livello mondiale, calcola un recente rapporto del Wwf, il ripristino del 52% dei terreni agricoli, oggi in stato di degrado o disuso, consentirebbe una transizione più rapida verso produzioni sostenibili. Non per niente, molti Paesi si stanno via via orientando verso pratiche di agricoltura rigenerativa che favoriscono la biodiversità, abbattono l’uso di pesticidi e il consumo di acqua ed energia, puntando anche sull’autoproduzione da fonti rinnovabili. Si sta ragionando nondimeno sul ridimensionamento della produzione di biocarburanti e del consumo di carne, in modo che molti terreni adibiti alle colture per il mangime possano essere riconvertiti su specie dedicate all’alimentazione umana.
Fin qui le belle idee e le buone intenzioni sul medio e lungo termine. Ma intanto c’è l’emergenza e la guerra del cibo è anche una partita a scacchi su scala globale che va giocata mossa dopo mossa. L’India, per esempio, quale secondo produttore al mondo di grano con 93 milioni di tonnellate, ha rivisto la decisione di bloccare l’export limitatamente ai volumi che avevano già passato le procedure doganali il 14 maggio scorso. In pratica, lo sblocco ha riguardato 1,2 milioni di tonnellate: spedizioni all’estero sostenute da lettere di credito già emesse e verso Paesi che dovevano soddisfare esigenze di sicurezza alimentare. Ma il governo indiano ha fatto questo passo indietro grazie alla promessa degli Usa di 500 milioni di dollari di forniture militari a Delhi che, tuttavia, ha dovuto a sua volta garantire di non comprare armi da Mosca e di far giungere le derrate ad Algeria, Turchia, Libano ed Egitto che sono totalmente dipendenti dalle importazioni di cereali.
Proprio l’Egitto, che è il maggiore importatore mondiale di grano, ha intanto dato il via alla prima di una serie di iniziative pensate per ridurre la dipendenza dall’estero: il progetto localizzato lungo la strada Cairo-Dabaa è parte della più ampia direttrice di sviluppo della regione del Nuovo Delta e punta a raddoppiare la produzione agricola locale. Il presidente Abdel-Fattah al-Sisi ha tenuto a chiarire che si userà acqua proveniente in parte da pozzi e in parte da impianti di depurazione, dunque non estratta dal fiume Nilo. Gli Stati africani, c’è da dire, sono tentati dall’accettare il grano russo e il presidente Vladimir Putin sta facendo valere la moral suasion diplomatica che deriva dal potere negoziale connesso a una produzione nazionale massiccia di cereali e farine (sono attesi quest’anno 130 milioni di tonnellate di grano).Tuttavia dagli Usa nelle scorse settimane è arrivato più di un avvertimento: “Non accettate quel grano, perché è rubato all’Ucraina”. Minaccia invero caduta almeno in parte nel vuoto, dato che sono arrivate svariate conferme circa carichi di grano in viaggio dal Donbass verso la Crimea, poi verso la Russia e quindi trasferiti in nave per dirigersi infine in Medio oriente e Africa. Il governo di Mosca non ha confermato. Sono state le stesse autorità filorusse dell’autoproclamata amministrazione militare-civile di Zaporizhzhia a confessarlo: “Stiamo inviando grano attraverso la Russia. I contratti primari sono stati firmati con la Turchia”.
A livello globale appare chiaro che la miccia da cui è scoppiata la guerra dei cereali non è stata accesa da una penuria di produzione ma da un deficit logistico di stoccaggio, trasporto e distribuzione. Tra l’altro, interruzioni prolungate alle esportazioni, a fronte di alti volumi, possono indebolire la filiera e quindi la capacità produttiva. A quel punto, i lavoratori iniziano a protestare e il governo di turno deve intervenire con sussidi. Ed è proprio dalle accise sull’export che derivano le risorse per sussidiare il mercato interno e ridurre i prezzi. Ecco allora che l’Indonesia, per citare un caso, ha dapprima seguito l’esempio dell’India sul blocco delle esportazioni di grano, ha riempito gli stoccaggi e dopo meno di un mese ha fatto marcia indietro.
C’è poi il caso alquanto singolare della Cina che, pur essendo una superpotenza del grano (quasi tutto rivolto al mercato interno), da mesi accumula e riempie i silos con decine e decine di milioni di tonnellate di derrate alimentari, molto più di quanto la crisi ucraina possa giustificare. Si stima che entro la prima metà dell’annata agraria 2022 Pechino si sarà assicurata il 69% delle riserve mondiali di mais per l’alimentazione da allevamento, ma anche il 60% del riso e il 51% di grano alla base dell’alimentazione umana. Il governo cinese ha addirittura preso a comprare grandi quantità di cereali dalla stessa Russia, in forza dell’accordo siglato tra Putin e Xi Jinping l’8 febbraio scorso, durante i Giochi olimpici invernali di Pechino e poco prima dello scoppio della guerra. Un atteggiamento naturalmente irritante agli occhi dell’Occidente, che cerca di isolare Mosca con le sanzioni: soprattutto l’Australia (produttore da 25 milioni di tonnellate di grano) è andata su tutte le furie. Tuttavia, l’accumulazione cinese non ha mancato di suscitare pure cattivi e dietrologici pensieri attorno alla possibilità che Pechino sapesse in anticipo dello scenario geopolitico che si sarebbe creato a partire da fine febbraio. Cosa vuole farci Xi con queste enormi riserve? Sicuramente lo scopo è giocare un ruolo da protagonista nella guerra dei prezzi e delle forniture alimentari. Guerra di cui la fine sembra ancora lontana.