Il viaggio invisibile della plastica

Tartarughe soffocate dai sacchetti, albatros che ingeriscono accendini e tappi di bottiglia, balene spiaggiate con chili di spazzatura nello stomaco. Pensavamo di avere visto tutto e invece non avevamo visto ancora nulla. Perché i rifiuti che galleggiano in mare sono in realtà solo una frazione infinitesimale delle oltre 8 milioni di tonnellate di plastica che vengono riversate in acqua ogni anno. E allora dove va a finire tutto il resto? Per rispondere a questa domanda è nato il progetto internazionale Hotmic (Horizontal and vertical oceanic distribution, transport, and impact of microplastics) che intende svelare l’invisibile viaggio subacqueo delle microplastiche, ovvero fibre e detriti con dimensioni inferiori al millimetro. Il progetto, triennale, finanziato con 2,3 milioni di euro nell’ambito del programma europeo JPI Oceans, è coordinato dai tedeschi di Geomar-Centro Helmholtz per la ricerca oceanografica e vede l’Italia in prima fila con il dipartimento di chimica e chimica industriale dell’università di Pisa. «In passato i chimici si sono sempre occupati di come migliorare i prodotti di plastica per impedirne la degradazione: oggi invece la nuova frontiera è capire come la degradazione possa impattare sull’ecosistema e sulla catena alimentare che arriva fino all’uomo», spiega Valter Castelvetro, professore associato di chimica industriale e referente del progetto Hotmic per l’ateneo pisano.

Il deterioramento della plastica è una questione di grande importanza perché produce microscopici frammenti che «hanno un’ampia superficie in relazione alla loro piccolissima massa e per questo sono più reattivi dal punto di vista chimico: ciò significa che possono interagire in modo più diversificato e dannoso con gli organismi viventi». I detriti più piccoli (sotto il millesimo di millimetro) possono perfino attraversare le membrane biologiche ed essere assorbiti dall’apparato digerente, accumulandosi nell’organismo con effetti ancora tutti da studiare.

«Ci sono moltissime cose che non sappiamo delle microplastiche, anche perché fatichiamo a identificarle e quantificarle», sottolinea Castelvetro. Per colmare questa lacuna, il suo gruppo di ricerca ha cominciato qualche anno fa a sviluppare nuove metodologie per riconoscere i diversi tipi di polimeri. «Sino a oggi la tecnica più comune si limitava a fare una separazione grossolana delle microplastiche dai sedimenti, seguita da una laboriosa e inaccurata conta tramite tecniche di microscopia e spettroscopia microscopica: in questo modo risultava difficile lavorare su centinaia di campioni per ottenere risultati statisticamente significativi. Noi invece – precisa il chimico – usiamo due diversi metodi di separazione, l’estrazione e la depolimerizzazione delle microplastiche, associati a tecniche analitiche di spettroscopia. La sfida è identificare i principali inquinanti: le insidie maggiori arrivano dai frammenti più fini, come i prodotti di degradazione di imballaggi, le microsfere di polistirene di alcuni cosmetici o le microfibre dei tessuti sintetici».

Proprio grazie ai nuovi metodi di analisi “made in Italy”, il progetto Hotmic punterà a sviluppare protocolli standard per il campionamento e la caratterizzazione delle microplastiche. Il primo banco di prova sarà lo studio dei campioni d’acqua e di sedimenti di fondale prelevati dalla nave di ricerca oceanografica tedesca Alkor che a marzo ha battuto la costa europea occidentale facendo tappa nello Stretto di Gibilterra, lungo la costa belga e in corrispondenza delle foci dei fiumi Senna, Tamigi ed Elba, in modo da ricostruire la prima parte del percorso delle microplastiche dai corsi d’acqua al mare. I prelievi sono stati fatti lungo tutta la colonna d’acqua: in superficie, a mezza altezza e sul fondale che, in corrispondenza della piattaforma oceanica, si trova a una profondità di alcune centinaia di metri. Le indagini si spingeranno ancora più a fondo nell’arcipelago di Capo Verde, al largo della costa nord-occidentale dell’Africa, dove sono stati immersi a 3.000 metri alcuni piccoli pezzi di plastica per vedere come verranno colonizzati dagli organismi marini nel prossimo anno e mezzo. Questi dati, insieme a quelli delle future campagne di campionamento che proseguiranno sino al vortice nord atlantico, permetteranno di capire meglio come si muovono le microplastiche e dove rischiano di fare più danni.

Lo sforzo sarà fondamentale anche per la salute dei mari di casa nostra. Basti pensare che il Tirreno presenta la più alta concentrazione di microplastiche mai misurata nei fondali marini del mondo: nello specchio di mare compreso fra Toscana, Lazio, Sardegna e Corsica si possono contare fino a 1,9 milioni di frammenti per metro quadrato. Il triste primato è stato svelato da uno studio pubblicato su Science dalle università di Manchester, Durham e Brema insieme al Centro oceanografico britannico (Noc) e all’Istituto francese di ricerca per lo sfruttamento del mare (Ifremer). Le analisi dei campioni, incrociate con le mappe dei fondali e i modelli delle correnti marine profonde, hanno permesso di capire che le microplastiche non sono distribuite in maniera uniforme: in realtà si concentrano, depositandosi in aree specifiche, in hotspot che rappresentano per i fondali quello che sono le “isole di spazzatura” per le acque più superficiali. Il motore di questi spostamenti sono le stesse correnti marine profonde che portano ossigeno e nutrienti: ciò significa che le microplastiche finiscono per accumularsi nei punti dove si concentra la maggiore biodiversità marina, rischiando di essere più facilmente ingerite e assorbite dagli esseri viventi che popolano gli abissi.

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