La biodiversità è una sfida per il metodo scientifico

L’ormai lontano 2020 è stato eletto dalle Nazioni Unite “Anno mondiale della biodiversità”. Ma che cos’è la biodiversità e perché è così importante? Ne abbiamo parlato con Telmo Pievani che, accanto all’attività di studioso e di comunicatore, ricopre presso l’Università di Padova la prima cattedra italiana di filosofia delle scienze biologiche.

All’Orto botanico di Padova, hai curato l’allestimento di un “Giardino della Biodiversità” e ogni anno organizzi “Risvegli”, un festival dell’università patavina in cui la biodiversità è uno dei temi più frequentati. Perché puntare tanto sul concetto di biodiversità e proprio a Padova? 

Quando 25 anni fa l’Unesco riconobbe l’Orto botanico di Padova – il più antico orto botanico universitario al mondo – come patrimonio dell’umanità, scrisse una motivazione che ho sempre trovato bellissima e calzante: vi diamo questo riconoscimento perché dalla metà del Cinquecento questo luogo di scienza, di didattica e di comunicazione sul mondo delle piante fa dialogare la natura e la cultura. È proprio così. La Serenissima aveva capito che la diversità delle piante era una risorsa commerciale preziosa e così mandava in giro per il mondo i “prefetti dell’Orto”, cioè gli accademici patavini responsabili scientifici della struttura, a cercare nuove essenze interessanti. Fu in questo modo che a Padova venne studiata, per esempio, la pianta del caffè proveniente dall’Etiopia attraverso l’Egitto. Una pianta che ci ha cambiato la vita. Qualcosa di simile avvenne per l’agave, il girasole e per molte altre piante nel corso dei secoli. La motivazione non era solo utilitaristica. Fin dagli inizi, in Orto la diversità delle piante venne intesa come una risorsa anche per la medicina e se ne intraprese lo studio sistematico e scientifico al fine di individuare principi attivi importanti per la nostra salute. Non ultimo, l’Orto di Padova fu pioniere nella didattica della botanica proprio attraverso l’analisi della diversità delle piante. Insomma, c’erano tutti gli ingredienti per affiancare all’Orto antico uno science center di nuova generazione, immersivo e interattivo, il Giardino della Biodiversità, nel quale migliaia di piante vive suddivise per biomi dialogano con installazioni multimediali, video, reperti originali, mappe, proiezioni. La narrazione che abbiamo scelto per il Giardino è molto semplice e ha a che fare con i viaggi che le piante hanno fatto insieme agli esseri umani: da una dozzina di millenni noi le addomestichiamo per i nostri fini ma in fondo sono loro che hanno addomesticato noi, visto che ogni aspetto della nostra vita dipende dalla diversità delle piante.

Che cosa significa e quando è stato scoperto il concetto di biodiversità?

Il termine era già sotteso alle prime campagne di sensibilizzazione contro la distruzione dell’ambiente degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, ma dobbiamo il conio del termine e la sua formalizzazione al grande evoluzionista ed entomologo di Harvard Edward O. Wilson. Nel 2009 ho avuto il privilegio di curare la riedizione in italiano del suo saggio fondativo, La diversità della vita, un testo meraviglioso uscito in un anno cruciale per la biodiversità, il 1992. In quel libro si capisce che la biodiversità è anche una sfida per il metodo scientifico: bisogna trovare un senso, le regolarità sottese e gli schemi di comprensione per la strabordante diversità delle forme di vita sulla Terra. Non dimenticherò mai le storie che vi sono raccontate: le 69 specie di bachi da seta selvatici nordamericani, ciascuna con il proprio orario di accoppiamento (e guai ad arrivare in ritardo!); il picchio cubano che resiste in un fazzoletto di foresta; il ciprinodonte del “buco del diavolo” che vive in una singola sorgente nel deserto del Nevada ecc. Ciascuna specie è figlia di una sua saggezza conquistata a fatica, senza alcun disegno preordinato e alcun fine remoto. Wilson scrive: “Sono necessari un colpo di fortuna, un lungo periodo di tentativi, di sperimentazione, e di errori”. Per estinguerla invece basta una gelata invernale più intensa del solito o un imbecille con un fiammifero al servizio di qualche compagnia petrolifera. Il valore della biodiversità secondo me sta tutto lì: nella asimmetria tra quanto tempo ci vuole per produrla e quanto poco ci vuole per distruggerla.

Perché la biodiversità è un aspetto così importante del fenomeno “vita” sul nostro pianeta?

La biodiversità è l’evidenza principale del processo evolutivo, quello che Charles Darwin chiamò l’albero della vita. Tutti gli esseri viventi sulla Terra sono legati da un rapporto di parentela, da una comune genealogia. Osservandone oggi le somiglianze, morfologiche ma soprattutto genetiche, possiamo ricostruire a ritroso il grado di cuginanza tra le specie, cioè quando hanno avuto un antenato comune nel grande albero della biodiversità. Se invece procediamo dal passato al presente, attraverso le prove paleontologiche e paleoecologiche possiamo ricostruire la grandiosa avventura che da un antenato comune universale e unicellulare vissuto intorno a 3,7 miliardi di anni fa ha portato – attraverso variazione, selezione, speciazione e altri meccanismi evolutivi – alla diversità delle forme di vita sulla Terra e ai loro variegatissimi adattamenti. Conoscere la biodiversità deve far parte della nostra cultura tout court.

Che ruolo ha la biodiversità nel pensiero evoluzionistico di Darwin?

La biodiversità, anche se non la si chiamava così, fu la chiave di accesso di Darwin alla riflessione sull’evoluzione. “Meraviglia, stupore e sublime devozione pervadono e innalzano lo spirito”, questi i sentimenti che provò il giovane Darwin al cospetto, per la prima volta, della foresta pluviale atlantica brasiliana. La cornice intellettuale pre-scientifica del tempo vedeva in questo profluvio di esseri una prova del disegno divino, essendo ogni specie un punto di creazione, senza cambiamento. Darwin, invece, tra il 1837 e il 1842 capisce che la diversità della vita è frutto di meccanismi interamente naturali. Il costante aumento del numero di specie si spiega con il fatto che esse tendono a occupare tutti gli spazi disponibili nella “economia della natura” (oggi parleremmo di nicchie ecologiche). Non è detto che vi riescano, a causa di vincoli esterni, competizioni con altre specie, perturbazioni ambientali, ma la spinta, la tendenza, è sempre quella. Darwin non concepiva l’esistenza di grandi estinzioni catastrofiche, mentre oggi sappiamo che hanno plasmato profondamente la biodiversità, come potature periodiche. Ogni volta, dopo un’estinzione globale o regionale, il motore della biodiversità riparte più forte di prima e dopo una fase di recupero il numero di specie torna uguale o superiore a prima. Ovviamente stiamo parlando di tempi biologici e geologici, di milioni o centinaia di migliaia di anni.

Hai lavorato a New York con Niles Eldredge che molti anni fa ha scritto della sesta estinzione di massa in corso. Come Wilson. I due però hanno posizioni in parte diverse sul determinismo in biologia. Che cosa li ha spinti ad avere una posizione comune sul tema dell’erosione della biodiversità?

Niles Eldredge si avvicinò ai temi della biodiversità e della sua conservazione da una strada diversa rispetto a quella di Wilson che, pur con il suo amore narrativo per il dettaglio, ha sempre cercato una “teoria” della biodiversità, in pratica i fondamenti dell’ecologia teorica: l’effetto dell’area e della distanza sul numero di specie che abitano un’isola; le successioni fra specie e le loro capacità di dispersione e di espansione; le relazioni fra predatori e prede, fra specialisti e generalisti, tra flore e faune; le associazioni simbiotiche; il ruolo delle “specie chiave”; le radiazioni adattative e le convergenze evolutive; l’intreccio dei flussi di energia negli ecosistemi; il gradiente latitudinale della biodiversità; la relazione inversa fra diversità di specie e taglia; il sommarsi di energia disponibile, stabilità climatica e area che spiega i picchi di diversità ai tropici e così via. Niles invece ci è arrivato a partire dalla sua idea, condivisa con Stephen J. Gould e altri, che le specie fossero entità discrete protagoniste dell’evoluzione, non soltanto collezioni di individui somiglianti. La teoria degli equilibri punteggiati è un modello di speciazione allopatrica generalizzato (ossia quel processo evolutivo per cui una piccola frazione di popolazione si separa geograficamente, isolandosi totalmente dalla popolazione d’origine, ndr), che spiega appunto il ramificarsi talvolta anche rapido delle specie negli alberi filogenetici, a causa di fattori ecologici (barriere fisiche o comportamentali, cambiamenti climatici ecc.). Eldredge ha poi esteso la sua visione proponendo una teoria ecologica dell’evoluzione in cui due gerarchie, quella genealogica della trasmissione di informazione genetica e quella ecologica delle relazioni materiali, interagiscono l’una con l’altra avendo gli organismi (portatori della variazione ma anche interattori con l’ambiente) come perno centrale. Alla fine, Eldredge e Wilson si sono però trovati alleati nel considerare il ruolo centrale della biodiversità nell’evoluzione e hanno scritto alcuni dei libri più belli (come La vita in bilico di Eldredge) per raccontare la follia umana che la distrugge sconsideratamente. Furono anche tra i primi a ipotizzare, nello scetticismo generale, che la riduzione della biodiversità dovuta alle attività umane fosse comparabile alle peggiori estinzioni di massa del passato. Li bollarono come “catastrofisti”. Vent’anni dopo, tutti danno loro ragione. Quanto al determinismo biologico, Wilson ha cambiato idea sulla sociobiologia e su molti altri puntelli della sua iniziale visione adattazionista e genecentrica della natura umana. Segno di intelligenza e di onestà intellettuale, visto che le evidenze empiriche andavano in quel senso.

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