Pirandello e de Finetti: quando il teatro diventa scienza

Riproponiamo il testo – solo qui nella sua versione integrale – dell’articolo presente sul Prisma ancora in edicola (e disponibile online) a firma dell’ingegnere e divulgatore Luca Nicotra sullo spirito matematico di uno dei grandi nomi della letteratura italiana, Luigi Pirandello

Bruno de Finetti nacque a Innsbruck il 13 giugno 1906, sotto l’Impero Austro-Ungarico da genitori italiani e morì a Roma il 20 luglio 1985. È stato uno dei più grandi matematici del Novecento, ma anche grande statistico, filosofo della scienza ed economista meritevole di premio Nobel. In tutto il mondo è celebrato per due suoi fondamentali contributi alla scienza: la creazione della teoria della probabilità soggettiva e il suo approccio alla teoria della conoscenza, che sta indirizzando sempre più l’attuale filosofia della scienza: la sostituzione di una scienza rigidamente deterministica, regolata dalla classica logica del certo, a due valori (vero o falso), fondata sul principio di non contraddizione e sul principio del terzo escluso (tertium non datur), con una scienza guidata dalla logica dell’incerto, «viva, elastica, psicologica», basata sull’attribuzione di valori di probabilità, che non può essere che soggettiva in quanto esprime numericamente (con infiniti valori compresi fra 0 e 1) non altro che il «grado di fiducia di un dato soggetto, in un dato istante e con un dato insieme di informazioni, riguardo al verificarsi di un dato evento».[1]
Ma Bruno de Finetti non è stato soltanto questo, che pur sarebbe già tanto per assicurarlo alla memoria dei posteri: è stato anche un intellettuale a tutto campo, che ha occupato un posto autorevole nello scenario socio-culturale dell’Italia del secolo scorso.
Un segno della poliedricità dei suoi interessi culturali è proprio l’interesse per Pirandello.
Bruno era un fervido ammiratore di Luigi Pirandello e, come lui stesso racconta, seguiva assiduamente, assieme alla giovane moglie Renata Errico, i lavori teatrali del geniale drammaturgo siciliano.
Ma l’ammirazione di Bruno de Finetti per Pirandello trovava nel giovane matematico ragioni molto profonde, che un qualsiasi altro critico pirandelliano non poteva nemmeno sospettare. Ragioni che, in maniera apparentemente incomprensibile, gli fecero affermare che considerava Pirandello «come uno dei più grandi spiriti matematici». Le motivazioni di questa sua insolita e originalissima interpretazione di un “Pirandello matematico” le espresse molto chiaramente, e con stile da autentico critico letterario, in un celebre articolo intitolato Pirandello. Maestro di logica, pubblicato il 5 dicembre 1937 nientemeno che in un periodico di critica letteraria, «Quadrivio», «Grande settimanale letterario illustrato di Roma», come recita il sottotitolo.

Lo stesso scritto fu ripubblicato, con il titolo originale integro Luigi Pirandello. Maestro di logica, nel quotidiano di Trento “Il Brennero”, qualche giorno dopo, il 9 dicembre 1937. L’articolo fu pubblicato in occasione del primo anniversario della morte di Luigi Pirandello, avvenuta il 10 dicembre 1936, e dovette suscitare una certa sorpresa anche da parte della direzione stessa del settimanale «Quadrivio», che infatti sentì il bisogno di introdurlo con un trafiletto nel quale si evidenziava che si trattava di un articolo di critica pirandelliana scritto da un matematico e non da un critico letterario di professione.
Nel 2002 conobbi Fulvia de Finetti in seguito a un mio articolo, dove citavo il padre, che la colpì al punto da volermi conoscere. Ne seguì una bella e lunga amicizia, alimentata dalla comune ammirazione per il padre e dal desiderio di mantenerne viva la memoria, soprattutto per i numerosi aspetti della sua personalità non strettamente scientifici e quindi praticamente ignoti. Già dalla fine del 2004 stavamo lavorando entrambi alla stesura della prima biografia del padre, poi pubblicata alla fine del 2008 dall’editore Belforte di Livorno con il titolo Bruno de Finetti, un matematico scomodo. Nell’ambito delle ricerche bibliografiche da me condotte alla Biblioteca Nazionale Centrale di Roma, nel dicembre del 2004 mi imbattei in un articolo di Bruno de Finetti dal titolo veramente insolito, Pirandello. Maestro di logica, che potei leggere per la prima volta nella emeroteca e del quale ignoravo l’esistenza. Fui letteralmente folgorato dal suo contenuto così originale ed “esplosivo”, che mi affrettai a darne notizia a Fulvia, la quale si mise subito a frugare fra le carte del padre per trovarne traccia. Trovò due pagine dattiloscritte dell’articolo, di cui però mancava purtroppo una terza, contenente per fortuna soltanto l’ultimo periodo dell’articolo.

La prima pagina del dattiloscritto

Il confronto fra il dattiloscritto originale e l’articolo pubblicato in «Quadrivio» ha rivelato la mancata pubblicazione, verso la fine, della frase: «è da questo stesso spirito che discendono idealmente le orde dei senza Dio e senza patria dilaganti dai bassifondi del sovversivismo ai vertici dell’affarismo internazionale e del demomassonico intrigo».[2] Dimenticanza o censura?
La lettura dell’articolo di de Finetti su Pirandello mi appassionò tanto da farne oggetto di una conferenza dal titolo Pirandello matematico, tenuta il 15 dicembre 2007 nell’Aula Magna del Convento di San Silvestro a Monte Compatri, all’interno del convegno “Dalla logica pirandelliana al relativismo di de Finetti”, al quale parteciparono pure Fulvia de Finetti con la relazione Il triangolo de Finetti-Pirandello-Tilgher e Pierluigi Pirandello, nipote di Luigi, con la relazione Arte e Scienza. Un anno dopo, il 15 novembre 2008 lo stesso convegno fu replicato nel Castello di Avezzano. Nello stesso anno mi fu richiesto da MatePristem Bocconi Springer-Verlag di scrivere un articolo tratto dalla mia conferenza, che lasciai intitolato Pirandello matematico, pubblicato in «Alice&Bob» n.8, poi riproposto diverse volte in rete (http://www.marialuigia.eu/wp-content/uploads/Pirandello-matematico1.pdf.). In quell’articolo interpretavo più esplicitamente le ragioni che avevano spinto de Finetti a definire Pirandello «uno dei più grandi spiriti matematici», alla luce del mutamento del pensiero matematico conseguente alla affermazione delle geometrie non euclidee e dell’impostazione assiomatico-formalista delle teorie matematiche.
Della stretta vicinanza del pensiero definettiano a quello pirandelliano si trovano diverse altre tracce nell’opera del nostro grande matematico. Di chiara ispirazione ai pirandelliani Sei personaggi in cerca d’autore è il titolo dell’articolo di Bruno de Finetti Tre personaggi della Matematica: i numeri e, i, π apparso su «Le Scienze», trad. italiana di «Scientific American» n°39, nov. 1971. A chi gli chiese conferma di tali origini del titolo del suo articolo, così rispose Bruno de Finetti: “E certamente – ammisi – c’è una reminiscenza della magia pirandelliana di evocare i suoi personaggi, essenziali, veri, reali, ma troppo veri per non essere considerati da spettatori grossolani come fantocci, simboli, fantasmi”.
Perché l’articolo Pirandello. Maestro di logica apparve così “rivoluzionario” e incomprensibile, nel giudizio superficiale di un suo paradossale nesso fra il relativismo pirandelliano e la matematica, “scienza esatta” per eccellenza, dominio di verità assolute, nell’immaginario collettivo? Incomprensibile perfino ai matematici stessi, come racconta de Finetti, citando la meraviglia di un suo collega nel sentirgli affermare che considerava Pirandello «uno dei più grandi spiriti matematici». È lo stesso de Finetti che si affretta a risolvere il paradosso, attribuendolo alle «inveterate illusioni razionalistiche» di considerare la matematica come qualcosa di derivato da verità assolute e universali, i famosi giudizi sintetici a priori di Immanuel Kant, verità esterne a noi e necessarie per comprendere la realtà fisica che ci circonda. Ma la scoperta, agli inizi del secolo XIX,[3] delle geometrie non euclidee, diverse da quella di Euclide, ritenuta per millenni l’unica vera e possibile, aveva costretto i matematici a una radicale riflessione sul concetto di verità e a una revisione critica dei fondamenti e della struttura logica della loro disciplina. Da una iniziale considerazione come semplici “esercizi logici”, non ravvedendo in esse possibili applicazioni, bollate come «geometrie del soprasensibile» o «da manicomio», le geometrie non euclidee  acquistarono la stessa dignità di “verità” della geometria euclidea allorchè un nostro illustre matematico, Eugenio Beltrami, nel 1868 mostrò che gli assiomi e i teoremi di una di tali geometrie (la geometria iperbolica) risultano verificati (localmente) su una particolare superficie “euclidea”, detta pseudosfera: una superficie a raggio di curvatura costante, come nella sfera, ma negativo.[4] Il metodo di Beltrami fu poi seguito da altri matematici[5] per la stessa geometria iperbolica da lui considerata e anche per la geometria ellittica: consiste nel trovare all’interno della geometria euclidea degli enti geometrici che soddisfino i postulati della geometria non euclidea. Tali enti costituiscono allora un “modello” euclideo della geometria non euclidea e come tale validano quest’ultima: se la geometria euclidea è valida logicamente, allora lo è anche la geometria non euclidea, in quanto interpretabile in maniera euclidea. In questo modo la validità logica della geometria non euclidea è ricondotta a quella della geometria euclidea, la cui validità si assume come “assoluta”, in quanto rispondente alla realtà fisica, che non può essere contraddittoria. Il metodo dei modelli euclidei non solo rendeva possibile validare dal punto di vista logico le geometrie non euclidee[6] (fornendo così anche una dimostrazione della correttezza di considerare il V postulato un “vero” postulato[7]) ma offriva anche indizi su una loro possibile rispondenza alla realtà fisica, rendendole “vere” nel senso fino ad allora inteso: accordo con l’esperienza fisica, come affermato dalla scienza galileiana. Nel 1884, Henry Poincaré (1854-1912) mostrò un’importante applicazione della geometria iperbolica nella teoria delle funzioni fuchsiane di variabile complessa e Felix Klein (1848-1925) trovò inoltre applicazioni della geometria non euclidea alla geometria proiettiva. Ancora più credibilità acquistarono le nuove geometrie con il loro utilizzo nella fisica moderna. Albert Einstein dovette servirsi della geometria non euclidea di Riemann (ellittica) nella sua teoria della Relatività Generale, per descrivere le deformazioni “locali” dello spaziotempo prodotte dalle masse. Inoltre l’avere scoperto che la geometria ellittica può essere intesa come la geometria euclidea sulla sfera – non appena si mutino i modelli di punto, retta e piano – le ha dato una consistenza fisica maggiormente comprensibile da un largo pubblico. Anche la geometria iperbolica sembra trovare una sua rispondenza alla realtà fisica nella percezione visiva, che quindi sarebbe non euclidea.
L’affermazione delle geometrie non euclidee, non più ritenute soltanto costruzioni logiche, ebbe come conseguenza, sul piano epistemologico, l’abbandono del concetto kantiano delle verità matematiche “necessarie e universali” e la conseguente rinuncia a “una verità assoluta”. Ne risultò un mutamento profondo del concetto di verità in matematica, che da assoluta divenne relativa nell’ambito del sistema ipotetico-deduttivo in cui si opera, in quanto intesa soltanto come coerenza logica con le premesse, ovvero con gli assiomi, la cui verità è soltanto “postulata” senza alcun altra pretesa metafisica.[8] Dal secolo XX, i matematici hanno quindi capito che, almeno teoricamente, è possibile costruire molte “matematiche”, ciascuna delle quali si configura come un sistema ipotetico-deduttivo, vale a dire come un insieme di proposizioni indimostrate (assiomi), che esprimono proprietà di un numero limitato di enti indefiniti (enti primitivi) aventi il ruolo di semplici ipotesi, la cui verità non è riconosciuta ma soltanto postulata e da cui sono dedotte, per via logica, tutte le altre proposizioni del sistema  (teoremi).
A questo punto è chiaro il legame concettuale fra Pirandello e la matematica: il relativismo. Ed è ora comprensibile l’inusuale giudizio di de Finetti su Pirandello, da lui considerato «uno dei più grandi spiriti matematici», perché nessuno prima e più di lui ha saputo «dare una rappresentazione drammatica più perfettamente aderente al pensiero del matematico» attraverso i suoi «magistrali lavori… in cui ogni personaggio procede sino in fondo colla sua logica allucinante, strumento tagliente e perfetto che tuttavia nulla può sulla logica altrui se è diversamente impostata, a meno che non il ragionamento ma un improvviso barlume dell’anima non sconvolga tale impostazione».
Pirandello costruisce i suoi personaggi esattamente come un matematico costruisce un sistema ipotetico-deduttivo: ogni personaggio ha la sua verità, che è coerente con le sue personali esperienze e con la sua logica e, come tale, ha lo stesso diritto di cittadinanza della verità degli altri, non esistendo una verità assoluta. I personaggi pirandelliani con le loro storie sono, dunque, la trasposizione sulle scene teatrali di altrettanti e diversi sistemi ipotetico-deduttivi, ciascuno fondato su premesse differenti e sviluppato con logiche differenti. La verità d’ogni personaggio va valutata all’interno di se stesso, al pari della verità in un sistema ipotetico-deduttivo. Come Pirandello sostituisce alla verità unica dell’uomo la pluralità delle verità soggettive degli uomini, così l’assiomatismo-formalismo matematico demolisce l’antico centralismo della Verità Matematica Assoluta, decentrandola nella periferia delle Multiformi Verità Matematiche, relative agli infiniti sistemi ipotetico-deduttivi che il puro pensiero può concepire.
Non altro che un sistema ipotetico-deduttivo è quello disegnato dall’abilissima penna dello scrittore-matematico Pirandello nel suo celeberrimo dramma Così è (se vi pare), in cui ironicamente è sviluppata la problematica esistenziale dell’impossibilità di avere una visione unica e certa della realtà. Questo il prologo dell’opera: “Io sono realmente come mi vede lei. Ma ciò non toglie, cara signora mia, che io non sia anche realmente come mi vede suo marito, mia sorella, mia nipote e la signora qua (…) Vi vedo affannati a cercar di sapere chi sono gli altri e le cose come sono, quasi che gli altri e le cose per se stessi fossero così o così”.
E questa la chiusura: “Io sono sì la figlia della Signora Frola – e la seconda moglie del Signor Ponza – sì; e per me nessuna! Nessuna! Io sono colei che mi si crede”.
In queste parole è possibile ravvisare, senza ombra di dubbi, lo stesso relativismo che fu non soltanto di Bruno de Finetti ma anche di Adriano Tilgher e di Antonio Aliotta,  il filosofo  che solo ebbe il coraggio di pubblicare il saggio di de Finetti Probabilismo nel 1931, rifiutato dall’establishment culturale dell’epoca. Scriveva con grande lucidità l’Aliotta nella sua opera Relativismo e idealismo[9]: “Bisogna distinguere relativismo da relativismo. Vi è una forma di esso che chiude la nostra conoscenza nel regno del relativo, ma per contrapporre ad essa una realtà assoluta che le sfuggirebbe in eterno. In questa forma il relativismo si colorisce d’una tinta scettica e agnostica e si accompagna spesso al misticismo. […] Ma vi è un’altra forma di relativismo (ed è il mio), in cui il relativo è esso medesimo la realtà e non lascia nulla fuori di sè. Ciò che noi cogliamo non è l’ombra, ma la luce, non una copia, ma il vero e concreto originale. […] l’essere in sè delle cose fuori d’ogni rapporto [si giudica] una delle tante enunciazioni verbali, a cui non corrisponde nessuna idea, e che sono divenute veri e propri rompicapo in filosofia”.
Questo pensiero, totalmente condiviso da Bruno de Finetti in Probabilismo,[10] viene da lui rafforzato precisando che: “la frase «il relativo non lascia nulla fuori di sè» non va intesa nel senso che si affermi falsa la frase “esiste qualche cosa fuori del relativo”; si afferma invece che non ha senso, così che non si può nemmeno porre la questione della sua verità o falsità”.
Verrebbe la tentazione di definire questo relativismo con un ossimoro: relativismo assoluto. Un relativismo che non ha la sua ragion d’essere nella sua contrapposizione a una realtà assoluta, bensì nella sola realtà che può esistere, quella che acquista una sua connotazione soltanto nel rapporto di una cosa con le altre («Vi vedo affannati a cercar di sapere chi sono gli altri e le cose come sono, quasi che gli altri e le cose per se stessi fossero così o così»). Lo stesso concetto espresso nel II secolo dal filosofo indiano Nagarjuna, nella sua opera Le stanze del cammino di mezzo, affermando la mancanza di una esistenza individuale, che chiamava vacuità (sunyata): nulla ha esistenza in sé, tutto esiste solo in dipendenza da qualcosa d’altro, in relazione a qualcosa d’altro. E ancora lo stesso concetto affermato nella meccanica quantistica relazionale di Carlo Rovelli[11].
Gli oggetti sono tali solo in un contesto, cioè solo rispetto ad altri oggetti, sono nodi dove si allacciano ponti. Gli oggetti sono descritti da variabili che prendono valore quando interagiscono e questo valore è determinato in relazione agli oggetti in interazione, non ad altri. Un oggetto è uno, nessuno e centomila.

 

NOTE

[1] Bruno de Finetti, Teoria delle Probabilità. Vol. 1. Torino: Einaudi, 1970.

[2] «e del demomassonico intrigo» aggiunto a mano dallo stesso de Finetti nel dattiloscritto.

[3] Il nome di “geometrie non euclidee” fu dato nel 1824 da Carl Friedrich Gauss a quelle geometrie edificabili sugli stessi postulati della geometria euclidea sostituendo al V postulato (delle parallele) le sue due possibili negazioni. La scoperta delle geometrie non euclidee oggi si attribuisce a fra’ Gerolamo Saccheri, che nel 1733 scrisse un libro intitolato Euclides ab omni naevo vindicatus, nel quale involontariamente giunse a mostrare la possibilità logica delle due geometrie non euclidee, ma soltanto nel tentativo di dimostrare il V postulato di Euclide mostrando, invece, che le due possibili geometrie non euclidee sarebbero contraddittorie. L’opera di Saccheri rimase sconosciuta (perché soltanto stampata e non pubblicata) fino a quando nel 1889 una sua copia fu ritrovata dal padre gesuita Angelo Manganotti, il quale la fece leggere a un grande matematico del tempo, Eugenio Beltrami, che ne diffuse la conoscenza nel mondo matematico. Per tali ragioni le prime elaborazioni delle geometrie non euclidee (dette iperbolica ed ellittica) erano attribuite, erroneamente, alle stesse ritrovate indipendentemente nel secolo XIX da  Nikolaj Ivanovic Lobacevskij nel 1829, da Janos Bolyai nel 1832 e da Bernhard Riemann nel 1854.

[4] Eugenio Beltrami, Saggio di interpretazione della geometria non euclidea, «Giornale di matematiche», VI [1868], pp. 284-312.

[5] Henry Poincaré (1854-1912), Felix Klein (1849-1925).

[6] Non altrimenti possibile, in quanto la strada maestra per dimostrare la validità logica di una geometria non euclidea sarebbe esaminare “tutti” i suoi teoremi e accertarsi che fra essi non vi siano contraddizioni. Tuttavia, questa strada è letteralmente “impercorribile”, perché, per quanto vasto possa essere lo sviluppo dato alla geometria non euclidea, rimarrebbe sempre il giustificato sospetto che altri teoremi finora ignoti ne possano far parte e che proprio fra essi  possano annidarsi affermazioni contraddittorie.

[7] Cfr. il mio articolo “La verità in matematica: da assoluta a relativa” in «ArteScienza», Anno VI, 2016, N. 6, p. 96.

[8] Per una esauriente comprensione dell’argomento rimando al mio articolo citato: “La verità in matematica: da assoluta a relativa” in «ArteScienza», Anno VI, 2016, N. 6, pp. 71-146.

[9] Antonio Aliotta, Relativismo e idealismo. Napoli: Francesco Perrella, 1922, p. 92.

[10] Bruno de Finetti, Probabilismo. Saggio critico sulla teoria delle probabilità e sul valore della scienza. Napoli: Francesco Perrella, 1931, p.5.

[11] Carlo Rovelli, Helgoland.  Milano: Adelphi, 2020, p. 95.

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