Non parlare di clima sarebbe da irresponsabili

Secondo Nature i percorsi educativi interdisciplinari sono quelli che riescono ad avere un maggiore impatto sociale. Ne è convinto anche Rupert Klein, matematico, docente di fluidomeccanica computazionale alla Freie Universität di Berlino e vincitore nel 2003 dell’importante “Premio Leibniz”. A suo avviso, poche discipline sanno essere trasversali come la matematica. Forse perché, più che un puro campo della conoscenza, è un modo per osservare il mondo che ci circonda. Gli abbiamo chiesto qualcosa di più e per un’ora abbiamo parlato di modellistica climatica, importanza del linguaggio e divulgazione al grande pubblico per scoprire che di tutti gli errori che potremmo commettere, non parlare di clima sarebbe forse il più grande.

 

La matematica è una scienza oggettiva. La climatologia è invece caratterizzata da un certo grado di incertezza. Come si possono parlare due discipline così differenti?

La matematica è oggettiva nella misura in cui produce asserzioni rigorose che però riguardano un ampio ventaglio di temi, su domini della conoscenza anche molto diversi tra di loro. Nella matematica uno dei termini chiave è la quantificazione dell’incertezza, un concetto protagonista anche della ricerca sul clima: l’obiettivo è stimare l’incertezza in modo rigoroso. Possiamo dire quindi che la climatologia è caratterizzata dall’incertezza e che, grazie alla matematica, siamo in grado di dare una misura a questa incertezza. Si tratta di un elemento importante.

 

Come lavorano insieme matematici e climatologi? È una collaborazione appena nata o ha una lunga storia?

Negli ultimi anni, la modellistica matematica sta abbracciando sempre più aspetti della ricerca climatica. Così, molti scienziati del clima si affidano ai matematici per cogliere le potenzialità della modellistica e sempre più matematici sviluppano interesse per la modellistica del clima. È un reciproco interesse che si può cogliere anche nel numero di workshop dedicati all’interdisciplinarietà tra le due aree: sono cresciuti esponenzialmente negli ultimi anni e, dato l’interesse del pubblico, sono destinati a crescere ulteriormente.

 

L’Ipcc è un organismo dell’Onu che si occupa del cambiamento climatico. Nel suo Annual Report 5, questo gruppo intergovernativo definisce come punti di non ritorno (tipping points) quelli dopo i quali si ha un cambiamento irreversibile nel sistema climatico. Qual è il suo punto di vista come matematico su questo tema? I media esasperano questo tema?

Conosciamo la fisica che caratterizza i modelli del pianeta Terra a tal punto da poter affermare che, fino a metà del secolo scorso, l’estensione dei ghiacci polari non cambiava tanto perché c’era un accumulo sistematico di neve che impediva di cogliere sostanziali differenze nel bilancio glaciale durante l’anno. Il ghiaccio rifletteva maggiormente la luce solare che non veniva assorbita e non contribuiva in maniera così determinante allo scioglimento dei ghiacci polari, come invece sta avvenendo negli ultimi anni. Una volta che i ghiacci si sono sciolti, per riportarli allo stato solido servirebbe poter raggiungere temperature ancora più basse rispetto a quelle presenti in precedenza, così da garantire un’adeguata riflessione dei raggi solari e innescare nuovamente un circolo virtuoso. Questo è un esempio di punto di non ritorno. Una volta superata una certa soglia, è praticamente impossibile tornare allo stadio precedente.

Allo stesso modo il permafrost, il cui processo di scioglimento è accelerato rispetto a quanto era stato previsto dai climatologi, avrebbe bisogno di dinamiche differenti per potersi costituire nuovamente. Anche se non conosciamo con certezza ogni dettaglio relativo ai punti di non ritorno, siamo certi della loro esistenza: come un capitano che nella nebbia guida la nave con prudenza, per avere spazio di manovra qualora venisse avvistato un iceberg, navighiamo in un mare dove l’incertezza esiste ma dov’è ancora possibile mettere in campo delle strategie per cambiare la direzione che prederà il futuro. Parlando dei media, posso capire che creare contesti dove la paura la fa da protagonista non sia molto costruttivo, ma torniamo all’esempio della nave: quale passeggero non sarebbe spaventato qualora la nave non rallentasse in prossimità di un iceberg? Avrebbe ottime ragioni per essere preoccupato e capirebbe che è ora di agire e direbbe al capitano che la nave deve rallentare. Lo stesso accade ora, con il clima. È sbagliato utilizzare toni eccessivamente allarmistici ma è giusto far capire alle persone qual è la situazione reale. La scelta più irresponsabile sarebbe non parlarne.

 

Quali sono le sfide ancora aperte nell’ambito della modellazione climatica?

La dinamica della copertura nuvolosa e del vapore acqueo è una delle sfide più grandi. Le nuvole sono di estrema importanza per il clima perché contribuiscono al bilancio energetico del pianeta assorbendo buona parte della radiazione solare, incidendo quindi direttamente sulla temperatura. Se non ci fossero le nuvole, la temperatura sul pianeta sarebbe circa di 20 gradi superiore, un contributo enorme se si pensa che quello della CO2 è quantificabile in 2-3 gradi centigradi. Al momento, siamo in grado di descrivere il rapporto tra copertura nuvolosa e clima presente, ma non abbiamo una conoscenza sufficiente della fisica e della modellistica relativa all’argomento per poter effettuare previsioni robuste.

 

Che tipo di simulazioni vengono usate dai climatologi?

I climatologi usano quelle che vengono definite ensemble simulations lavorando su 20 o più simulazioni contemporaneamente, ognuna delle quali parte da dati diversi, osservandone poi i diversi risultati. Vengono descritti diversi possibili futuri, all’interno dei quali con molta probabilità è presente anche quello che poi finirà per verificarsi. Un esempio calzante si ha se osserviamo le previsioni effettuate negli anni Novanta circa la crescita del livello dei mari: ci troviamo esattamente nel punto previsto per il peggiore scenario ipotizzabile per i giorni nostri.

 

La differenza tra meteo e clima è fondamentale, così come com’è importante la sua comprensione da parte del pubblico. La modellistica può fornire un contributo nell’aiutare le persone a comprendere questa differenza?

Quando c’è un giorno più caldo del solito, probabilmente le persone non pensano a un impatto diretto del cambiamento climatico. Il pubblico comincia a essere preoccupato quando un’estate intera registra un bassissimo livello di piovosità, proprio com’è successo in Germania la scorsa estate: negli ultimi 100 anni il mio Paese non aveva mai conosciuto fiumi così secchi e precipitazioni così ridotte. Se non si osservasse il lungo periodo, si potrebbe però pensare che anche questo sia frutto di una fluttuazione meteorologica come tante altre. Siamo però in possesso di osservazioni robuste sul clima: se andiamo indietro nel tempo di 50-100 anni, è facile scoprire che i 10 anni più caldi del secolo si sono registrati nel corso dell’ultimo quindicennio. È un indicatore molto chiaro: è innegabile che il clima sta cambiando più velocemente di quanto eravamo abituati a vedere.

 

I big data vengono utilizzati nella modellistica climatica?

Noi abbiamo a che fare più con quelli che definirei small data. Infatti, i dati climatici disponibili, apparentemente moltissimi, sono pochi se confrontati con il numero di variabili fisiche di interesse da stimare. Chiaramente, grazie agli investimenti nella ricerca climatica, il numero dei dati disponibili sta crescendo esponenzialmente.

 

Che cosa si intende con “problema di attribuzione” nella climatologia?

È l’individuazione, a partire dai dati disponibili, di quali fenomeni naturali siano da considerarsi le cause del cambiamento climatico osservato. Ad esempio, l’aumento delle temperature medie globali potrebbe dipendere in linea di principio sia dall’aumento delle emissioni antropiche di CO2, sia da variazioni nell’energia emessa dal Sole. Complesse analisi statistiche hanno messo in evidenza fortissime correlazioni con il primo fenomeno e correlazioni molto deboli con il secondo. La rilevazione e l’attribuzione del cambiamento di temperatura globale a cause antropogeniche è stata una delle scoperte più importanti e visibili nel corso delle precedenti valutazioni scientifiche sui cambiamenti climatici globali da parte dell’Ipcc.

 

Lei ha seguito il progetto di ricerca di un suo dottorando per dare una definizione matematica del termine vulnerabilità perché molti esperti non riuscivano a mettersi d’accordo su un significato univoco. Allo stesso modo, abbiamo termini come catastrofe che hanno significati molto diversi nel linguaggio matematico e in quello comune. Lei cosa pensa della questione del linguaggio, in questo ambito?

Serve un chiarimento generale. Troppo spesso si confondono termini che hanno molte sfaccettature e hanno significati diversi in contesti differenti. La bellezza del linguaggio risiede proprio nella ricchezza di significato ma, quando utilizziamo un termine proprio del linguaggio naturale, generalmente più vago, bisogna senz’altro operare un chiarimento soprattutto se lo impieghiamo nelle scienze quantitative che hanno bisogno di una definizione chiara e univoca.

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