In molti Paesi, Italia compresa, il numero dei membri del Parlamento è stato deciso fino a oggi in base alla legge della radice cubica. Un fisico italiano ne mette ora in dubbio l’attendibilità
Il Parlamento perfetto non esiste. Lo constatiamo ogni volta nelle settimane confuse delle crisi di Governo. Ma se non c’è una formula magica che trasformi i politicanti di turno e i “trasformisti” in cerca di lidi politici più sicuri di turno in novelli Pertini, abbiamo per lo meno una formula matematica che stabilisca di quanti eletti dovrebbe essere il Parlamento ideale? Quasi mezzo secolo fa, il politologo estone Rein Taagepera ha provato a elaborarne una che permettesse di calcolare matematicamente il numero ottimale di parlamentari.
Non era certamente il primo a cimentarsi in questa sfida, ma il suo tentativo è stato quello che ha suscitato più interesse. Con un articolo pubblicato nel 1972 sulla rivista Social Science Research, Taagepera ha suggerito che la dimensione ideale di un parlamento dovrebbe corrispondere alla radice cubica del numero dei cittadini: A=αP1/3, dove A è la dimensione del parlamento, P è la dimensione della popolazione e α è una costante. In linea generale, maggiore è la popolazione di un Paese, più numerosi dovrebbero essere i suoi parlamentari. La teoria di Taagepera, ribattezzata come “legge della radice cubica”, non è mai stata applicata in maniera ufficiale, ma comunque ha finito per condizionare le scelte in una trentina di Paesi, Italia compresa. Per rendersene conto basta rileggere i quotidiani nostrani di un paio di anni fa, quando al centro del dibattito politico c’era la proposta di legge sul taglio dei parlamentari, poi approvata con il referendum costituzionale del settembre 2020. Tra i sostenitori del sì, molti avevano citato la teoria di Taagepera. Del resto, se la formula della radice cubica fosse stata applicata all’Italia e ai suoi 60 milioni di cittadini, avrebbe portato a un drastico calo degli eletti: deputati e senatori sarebbero dovuti passare da 945 a circa 390. La formula finiva così per essere sbandierata come una solida base scientifica a favore della riforma: “La matematica non mente”, titolavano alcuni opinionisti.
In effetti, la teoria di Taagepera non era mai stata messa davvero in discussione. Soltanto nel 2007 e nel 2012 alcuni ricercatori avevano proposto modelli alternativi che mettevano in evidenza una relazione a radice quadrata piuttosto che a radice cubica. Una differenza non di poco conto, visto che la regola della radice quadrata applicata all’Italia porterebbe a un aumento dei parlamentari: un concetto decisamente impopolare, in tempi di lotta alla casta.
A cambiare le carte in tavola, sollevando pesanti interrogativi sulla teoria di Taagepera, arriva ora il fisico Giorgio Margaritondo, professore emerito della Scuola Politecnica Federale di Losanna (Epfl) e presidente del Comitato tecnico-scientifico dell’Istituto Italiano di Tecnologia (Iit).
«L’articolo originale di Taagepera presenta errori fatali, passati inosservati per mezzo secolo», spiega Margaritondo, che ha individuato ben cinque errori da matita rossa e blu. «Innanzitutto la legge della radice cubica non è stata derivata dai dati empirici che il politologo ha raccolto fotografando la situazione di vari Paesi dell’epoca: rifacendo i calcoli, questi numeri porterebbero in realtà a una legge più vicina a quella della radice quadrata», afferma il fisico. Dunque «la radice cubica è frutto di una forzatura fatta a priori: un grave errore per qualsiasi analisi statistica». L’occhio di Margaritondo ha poi scovato una banale imprecisione matematica e un equivoco di fondo: «Il modello di Taagepera presuppone che ogni eletto trascorra in media la stessa quantità di tempo per comunicare dentro e fuori dal parlamento». Un’ipotesi arbitraria, che secondo il fisico «porta a conseguenze non realistiche, soprattutto oggi che i mezzi di comunicazione di massa e i social hanno cambiato tempi e dinamiche». C’è poi un altro fattore che mina la credibilità della teoria di Taagepera, ovvero la qualità dei dati selezionati. «Il politologo non ha preso in esame solo Paesi democratici e virtuosi, ma anche dittature, regimi corrotti e discutibili, come quelli dell’America Latina, dell’Urss e della Cina». In questo modo, dai calcoli emerge quella che è la dimensione “effettiva” di un Parlamento, non la sua dimensione “ottimale”. Anche volendo filtrare meglio i dati, considerando solo i Paesi virtuosi, resta il problema dell’accuratezza dell’analisi statistica. Secondo Margaritondo, «le formule matematiche usate hanno un intervallo di confidenza molto ampio, che nel caso dell’Italia spazierebbe da 200 fino a 1.200 parlamentari: ecco perché è pericoloso introdurre questo genere di valutazioni scientifiche, troppo approssimate, nel dibattito politico».
A suo giudizio, insomma, non si può ancora decidere quale sia la dimensione ottimale di un parlamento basandosi solo sulla matematica. La valutazione, più che scientifica, dovrebbe essere politica. «Lo dico da italiano emigrato all’estero, prima negli Stati Uniti e poi in Svizzera», afferma Margaritondo. «Migliorare la rappresentatività non significa solo aggiustare il numero dei parlamentari, ma rendere più diretto e umano il loro rapporto con gli elettori, attraverso un’organizzazione più capillare sul territorio che coinvolga maggiormente i cittadini e rafforzi la partecipazione democratica». La politica, insomma, non è solo una questione di numeri.