Lo sguardo femminile sulla botanica

La storia della ricerca scientifica è piena di casi di donne protagoniste che, per convenzione o per abitudine da parte dei colleghi maschi, sono state relegate a ruoli di secondo piano. Nelle scienze naturali, conoscerle dà l’occasione per vagare tra luoghi degni di esplorazione e studi stimolanti

“Uomini e piante”, “Uomini che amano le piante”, “Uomini e alberi”, “L’uomo che piantava gli alberi”… “I padri della botanica”: sono ormai decine i titoli, gli articoli che in questi ultimi anni raccontano l’atavica, millenaria storia che lega l’umanità alla natura. Quello delle piante e degli humana, così da comprendere donne e uomini, sono due mondi in continua co-evoluzione, direbbe Charles Darwin, che prima di decidere di sposarsi si preoccupò, sul suo taccuino, di analizzare scientificamente vantaggi e svantaggi dell’operazione, per poi optare per il matrimonio con quella Emma Wedgwood che l’avrebbe sostenuto per tutta la vita sia materialmente sia moralmente, il che gli consentì nei fatti di dedicarsi alle sue ricerche. Non molti conoscono Emma, così come pochi conoscono le donne che, soprattutto tra Ottocento e Novecento, hanno visto, per pura convenzione o per abitudine da parte dei colleghi maschi, condannato all’oblio l’apporto scientifico, sperimentale e speculativo che in centinaia hanno dato allo studio delle scienze naturali e, in particolare, alla botanica.

 

Tra le più celebri imprese femminili quella di Henriette D’Angeville, la prima donna sulla vetta del Monte Bianco, nel 1838

A chi ripercorre la loro esistenza e, soprattutto, le loro opere si apre un universo di notizie, dati, scoperte, cataloghi e storie personali che suggerisce anche nuovi input per riprendere filoni di ricerca ancora oggi attualissimi o poco indagati. Soprattutto per chi è appassionato di botanica e ambiente in tutte le sue innumerevoli sfaccettature, conoscerle è l’occasione per vagare tra luoghi degni di esplorazione e studi davvero stimolanti. Sulle Dolomiti, ad esempio, sono molte le donne che per anni si sono mosse alla ricerca disagevole di specie nuove e che ci hanno lasciato documenti di viaggio, diari, erbari secchi, studi cartografici e geologici in tempi in cui una matita, un paio di scarpe più robuste (non sempre disponibili per le donne fino a tutto il XIX secolo) e nel migliore dei casi un mezzo a motore rappresentavano gli unici materiali di viaggio.
Qualche anno fa è stato ristampato il diario dell’inglese Amelia Ann Blandford Edwards (1831-1892) che, più conosciuta nel mondo anglosassone come egittologa, passò lungo tempo a osservare con sguardo di vera naturalista le cime inviolate delle Dolomiti. Un diario che ci può accompagnare ad apprezzare percorsi, luoghi e paesaggi alpini immutati, ma che oggi può anche suggerirci i cambiamenti avvenuti, dopo quasi duecento anni, nelle piccole borgate e nelle abitudini dei loro abitanti e le trasformazioni delle colture praticate e della vegetazione spontanea sulle terre alte.
Qualche decennio più tardi quelle stesse montagne sono state esplorate da altre due naturaliste, questa volta delle vere e proprie esperte botaniche in un periodo in cui le donne non accedevano facilmente agli studi universitari di tipo scientifico, in accordo con quanto sulla presunta inferiorità intellettuale della donna scrivevano Cesare Lombroso, Paolo Mantegazza e Giuseppe Sergi.

Onorina Passerini in partenza per Il Cairo in nave

Siamo nei primi anni del Novecento quando la prima delle due, la contessa fiorentina Onorina Passerini Bargagli (1889-1966), dopo essersi recata nel 1910 come Amelia B. Edwars in Africa per risalire il corso del Nilo, esplora sistematicamente ogni estate il Cadore per riportare piante nuove e piante già conosciute al botanico Renato Passerini (1875-1949), curatore all’epoca dell’Erbario centrale di Firenze.

L’esploratrice fiorentina Onorina Passerini

A noi sono giunti alcuni bellissimi fogli d’erbario che aveva collezionato per la pubblicazione della Flora del Cadore (nella quale peraltro lei non figurerà) e che oggi sono conservati nel Museo botanico di Padova. Pur non avendo potuto partecipare con regolarità alle lezioni di agraria all’università di Firenze – la figlia racconta che quando lei metteva piede in aula, essendo l’unica donna, sistematicamente tutti sghignazzavano e la deridevano – già dal 1906, quando aveva solo 18 anni, si era dedicata alla botanica, diventando poi membro dell’Istituto italiano per l’Africa e direttrice dei corsi di Cultura nella sede regionale di Firenze.
Non possiamo dimenticare neppure una vera donna di genio, la seconda naturalista a cui accennavamo, che non riuscì mai ad andare in cattedra per il solito motivo che frenava le donne, per quanto preparate, dedite e motivate: la discriminazione di genere. Silvia Zenari (1895-1956) dovrebbe essere conosciuta da tutti coloro che, occupandosi di piante e areali di distribuzione, studiano quella parte della botanica che è chiamata “fitosociologia”. È lei, friulana, laureata in scienze naturali e assistente alla cattedra di botanica a Padova, la prima donna che si dedica a questi argomenti. Ecco cosa racconta in uno dei suoi scritti. “Negli anni precedenti l’ultima guerra possedevo una Fiat 514 della quale conservo sempre graditissimo ricordo, perché mi era di prezioso aiuto nelle mie ricerche di geologia e fitogeografia alpina, brava com’era ad arrampicarsi su per qualsiasi straducola alpina, purché ci fosse lo spazio sufficiente a posarvi le quattro ruote e questo senza mai darmi noia alcuna per cambi, balestre, bronzine od altro. Un vero muletto d’artiglieria da montagna! In quell’anno 1936 lavoravo sulle Alpi Breonie, in Alto Adige e, con base a Vipiteno, perlustravo sistematicamente monti e vallate, parte in macchina e parte a piedi secondo le possibilità, in modo da avere il più vasto raggio d’azione possibile”. Di lei rimangono diverse opere prime per una donna quali le Lezioni di Fitogeografia del 1936 e la Flora escursionistica dell’Italia Settentrionale pubblicata a Padova nel 1957. Ora, grazie a Pompeo Pitter, dal 1966 esiste a Pordenone la Società Naturalisti Silvia Zenari a lei intitolata e, sempre a Pordenone, nel 2007 le è stato dedicato il Museo civico di storia naturale nel cinquecentesco Palazzo Amalteo.
Sono solo tre naturaliste, fra le tante. Ad accomunarle ci sono l’attenzione alla relazione con l’altro e il conflitto sciolto dalla cultura del confronto, tipici di quel femminile che predilige l’accoglienza e la socialità. Abbiamo bisogno che le giovani donne di oggi che si avviano sullo stesso cammino sappiano di avere delle buone compagne e maestre.

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