Un’invenzione per sbaglio

Se qualcuno trova ostico il linguaggio matematico, dovrebbe andare a vedere com’era nell’antichità. Negli Elementi di Euclide, il testo più importante della matematica greca, gli enunciati sono di questo tipo: “Se un totale sta a un totale come un numero sottratto sta a un numero sottratto, allora il restante sta al restante come il totale sta al totale”. Difficile raccapezzarsi, anche per un matematico. Eppure quella che Euclide stava esponendo è una ben nota proprietà delle proporzioni, che oggi si studia alle scuole medie: “Se a : b = c : d, allora (a – c) : (b – d) = a : b”.
Se una proposizione elementare risultava così ingarbugliata, figuriamoci cosa poteva succedere con teoremi di matematica superiore: un’equazione differenziale sarebbe praticamente inconcepibile in questo linguaggio. Per lo sviluppo della matematica moderna (e quindi anche della scienza in generale) è stato indispensabile il calcolo letterale e simbolico, diffuso su larga scala a partire dal Rinascimento. Non è stato un passaggio immediato, bensì il frutto di un percorso lungo e non sempre lineare. Per esempio, l’italiano Raffaele Bombelli nel 1560 pensò di scrivere una potenza sotto forma di esponente; il gallese Robert Recorde nel 1557 ideò il simbolo “=” («perché non ci sono due cose uguali tra loro più di due rette parallele») e infine il francese François Viète, nel 1590, ebbe l’idea di usare le lettere per rappresentare i numeri: le vocali per le incognite e le consonanti per i termini noti. La prima apparizione dei simboli matematici è però molto più antica.
Alessandria d’Egitto, che per secoli era stata la splendida capitale culturale del Mediterraneo, fra il III e il IV secolo dopo Cristo era in una fase calante sotto il lungo dominio romano. Eppure era ancora un centro intellettualmente vivace, dove vivevano e lavoravano importanti personalità. Fra loro c’era Diofanto, uno degli ultimi esponenti della grande matematica ellenistica, erede di Archimede, Euclide ed Eratostene. Della sua vita sappiamo molto poco, ma per fortuna ci sono giunti alcuni dei 13 libri che componevano la sua opera più importante, l’Arithmetica. Qui Diofanto studia le equazioni algebriche, tanto che molti lo considerano l’ultimo matematico antico e insieme il padre dell’algebra moderna. Da lui prendono il nome le equazioni diofantee, cioè le equazioni algebriche a coefficienti interi di cui si cercano soltanto le soluzioni intere: per esempio la famosa xn + yn = zn, che compare nell’enunciato del teorema di Fermat. Per indicare un’incognita, Diofanto usava il termine ἀριθμός (arithmós), cioè “numero”. Spesso però usava per brevità solo le iniziali ἀρ e già questo potrebbe essere considerato come un abbozzo di simbolo letterale. Dato però che nel sistema di numerazione greco (come in quello romano) per
rappresentare i numeri si usavano determinate lettere, Diofanto per evitare confusioni aveva l’abitudine di scrivere la seconda lettera come esponente: ἀρ. Leggendolo, si doveva così capire che queste lettere non rappresentavano un numero ma l’incognita. Andando avanti nel tempo, al posto dell’abbreviazione compare un vero e proprio simbolo: .

Gli storici della scienza hanno elaborato diverse teorie per spiegare la nascita di questo strano segno. Fra le interpretazioni che godono di un certo credito, la più singolare è stata avanzata fra Otto e Novecento dallo storico inglese Thomas Little Heath e ripresa recentemente dall’americano Joseph Mazur. I libri antichi ci sono arrivati solo attraverso copie medievali, compitate nelle abbazie dai monaci amanuensi che li copiavano e ricopiavano, spesso senza sapere il greco (né la matematica) e quindi senza capire quello che stavano leggendo e scrivendo. Secondo quanto dice Heath, uno di loro potrebbe non aver riconosciuto le lettere ἀρ e, deformandole, le avrebbe unite in un simbolo unico, a sua volta ricopiato da altri amanuensi e via via modificato fino ad assumere la forma che ci è pervenuta. Sarebbe stato allora uno sconosciuto monaco medievale ad avere ideato per sbaglio un simbolo che stava a rappresentare l’incognita, ossia ad avere inventato il linguaggio matematico moderno!

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