Da dove viene la nostra ossessione per il mi piace, il like che in forme e formule diverse popola ogni social network e quasi tutte le piattaforme digitali? E dove ci ha portato? Già qualche anno fa Carolin Gerlitz e Anne Helmond avevano parlato, riferendosi solo a certi aspetti, ma cogliendo comunque nel segno, di like economy. A segnalare
una logica del web fatta di scelte binarie orientate a far esprimere una preferenza o l’altra all’utente grazie al pollicione di Facebook. Quel like ha una storia più profonda e antica della creatura di Zuckerberg, radicata negli studi del marketing sul piacere inaugurati già negli anni Novanta.
Per capire ogni sfumatura di quel lungo percorso che dall’advertising ci ha portato all’economia del mi piace occorre partire dalla pubblicità e domandarsi in che modo un annuncio sia in grado di aumentare o meno le vendite di un prodotto o servizio, tema sul quale gli esperti di marketing si sono interrogati per decenni. Poi, all’inizio degli anni Novanta, l’Advertising Research Foundation propose, nel suo progetto Copy Research Validity Project, una soluzione che ci riporta quasi per magia all’oggi: valutare se la pubblicità piace. O meglio, se risulti likable. Di tutti i parametri inclusi in uno studio che accompagnava quel documento, quello che ne uscì vincitor efu appunto la “piacevolezza”. Più degli elementi persuasivi, più della capacità di fissare un messaggio e consentire all’utente – in quel caso allo spettatore – di recuperarlo quando fosse trascorso del tempo, addirittura più della chiarezza del messaggio, fu la capacità di piacere a sfondare e farsi elemento di paragone.
Da tutti i conti che furono fatti, si ricavò una sentenza implacabile: se ti piace, lo compri. In altre parole, i messaggi che piacciono sono i più persuasivi. Da lì si partì nei cosiddetti liking studies, un campo d’indagine con il quale si tentò di migliorare l’uso di quel parametro come elemento essenziale per la valutazione della pubblicità. Il valore del like è fondamentalmente uno: astrae e condensa i pensieri complessi e le emozioni che quei pensieri contengono e, come ogni ottimo lavoro d’astrazione, nefornisce una quantificazione semplice e misurabile. In più, è un parametro universale: la strategia della piacevolezza resta sempre valida, pur al variare delle culture a cui si applica. Se questo era vero per una pubblicità televisiva, figuriamoci quanto possa esserlo oggi. La storia del mi piace su Facebook non è dunque affatto nuova. Affonda le sue radici esattamente in quel periodo.
Ne consegue che il pulsante like, indicato più volte nel corso della storia recentissima delle piattaforme sociali come uno strumento radicalmente democratico in grado di dare finalmente la parola al popolo, non è altro che un nuovo – ormai non più troppo nuovo – modo di raccogliere e indicizzare l’opinione del consumatore. Per vendergli esattamente ciò che vuole, che per Facebook significa anzitutto mostrare le pubblicità giuste. È la logica estensione di tutti gli studi e le pratiche di marketing sviluppate a partire dallo studio prima citato dell’Arf. Pulsanti del genere, ormai, se ne trovano perfino nelle toilette pubbliche.
In fondo, la scienza del marketing si è spesso ridotta a questo: collocarci in una serie di tassonomie basate su ciò che ci piace. Il problema del pulsante like è che porta troppo in vista tutto il sistema a cui abbiamo appena accennato. Lo spiegò bene qualche anno fa Robert W. Gehl, docente di comunicazione all’università dello Utah: “Facebook può rivelare troppo dell’architettura sottostante il capitalismo delle emozioni. E il bottone like toglie il velo e rivela lo stucchevole e patetico bisogno degli esperti di marketing di rendere piacevoli i loro brand. Se continua a piacermi, continuo a comprare”. Questa trasparenza del meccanismo è la ragione per cui, negli anni della maturità di Facebook, sempre più utenti hanno iniziato a chiedere un tasto uguale e contrario al pollicione: il famoso dislike. Concederlo agli utenti – la piattaforma ne conta oltre due miliardi – potrebbe a prima vista apparire un vantaggio per chi in fondo deve vendere pubblicità segmentando la propria utenza in modo sempre più preciso. Non è così. Proprio quel medesimo campo d’indagine tratteggiato poco sopra ha dimostrato, come sembra sapere molto bene anche Zuckerberg, che i sentimenti negativi «avvelenano tutto ciò che toccano».