Alberto Angela: “Lasciamoci guidare dalla conoscenza”

Per Alberto Angela la forza del nostro Paese è nella “cultura della cultura”. Un patrimonio lungo 3000 anni che ci ha consentito di affrontare al meglio la pandemia da coronavirus e di diventare un esempio per il mondo intero. Ai ragazzi che vogliono seguire il suo percorso consiglia di “imparare le lingue, essere sempre curiosi e curare le fonti”

Alberto Angela, paleontologo, giornalista, scrittore, è un volto notissimo della Rai dove conduce programmi di divulgazione scientifica e culturale come “Ulisse, il piacere della scoperta”, “Stanotte a…”, “Meraviglie, la penisola dei tesori”, per citare solo i più recenti. In tempi di eccessi di trash, media generalisti, post verità e bufale che volano sui social, l’approfondimento di Alberto Angela, in continuità con l’eccezionale percorso compiuto dal padre Piero, è un punto di riferimento per milioni di italiani.

 

Lei è protagonista della divulgazione scientifica da molto tempo. Quanto è cambiato il suo lavoro in questi anni di cambiamenti tecnologici, di sviluppo dei social network e con la tendenza dell’informazione a premiare l’immediatezza?

Il mio lavoro non è cambiato, è sempre lo stesso. È quello di approfondire bene le informazioni. Un argomento è come un viaggio in cui bisogna percorrere tutte le tappe con attenzione e senza tralasciare alcun dettaglio. Il mio ruolo è quello di trasformare questo viaggio in un piacere, ricordando che è approfondendo le notizie che si coglie la loro essenza. Il web ha dei grandi vantaggi ma anche dei lati più oscuri: è bello per l’immediatezza e la vastità della fruizione. Nei nostri cellulare ci sono le potenzialità di immense biblioteche, ma occorre saperle gestire. Attraverso lo studio e l’approfondimento. Io vedo il web come un robot che può aiutare l’uomo, però occorre che gli vengano fornite le informazioni giuste per poterlo fare. E direi che la Trilogia di Asimov con le regole d’oro del comportamento dei robot sono sempre valide.

 

Seguendo le orme di suo padre, ha portato l’informazione scientifica nelle case di milioni di italiani. Con quali problemi vi siete scontrati e quale è stata l’intuizione che vi ha portato al successo?

Il nostro è un Paese che ha “la cultura della cultura”, siamo tutti abituati ad avere la cultura attorno a noi sotto forma di piazze, statue, musei, certo, ma anche di piatti che mangiamo. Tutti questi elementi sono frutto non di una improvvisazione ma di una tradizione lunghissima legata alla cultura del luogo in cui si vive. Altri Paesi non hanno radici culturali così profonde. I monumenti, le architetture, non sono altro che dei ricordi che ci hanno lasciato le generazioni passate sul loro concetto del bello. Quella era un’architettura che piaceva, era un piacere dell’occhio, e ancora adesso quella statua, quel quadro fanno commuovere oppure – penso ai Bronzi di Riace, alle opere di Raffaello o di Leonardo – impressionano, pure essendo frutto di epoche diverse, di mentalità diverse. Ma sempre di una cultura, che è la nostra. Noi abbiamo dei grandissimi alleati che sono gli italiani.

 

Ritiene che l’approfondimento scientifico abbia il giusto spazio sui media o sia ancora “sottostimato”?

Con il Covid abbiamo visto quanto sia importante l’informazione scientifica e tecnologica. Viviamo in un mondo in cui le conoscenze sono fondamentali. I nostri cervelli devono avere dei continui download, dei continui aggiornamenti, attraverso i libri, la tv, i mezzi di comunicazione. Bisogna però stare attenti a non spettacolarizzare la scienza o a demonizzarla. Le campagne “contro” qualcosa a volte sono frutto della mancanza di conoscenza. Si va sulla Luna con le lauree, studiando, approfondendo, facendo dei team di ricerca, non ci si va stando seduti sul divano davanti ai social. Viviamo in un’epoca in cui la tecnologia ha fornito tanto benessere, ma ha fatto dimenticare la difficoltà della vita, la fragilità dell’ecosistema che ci ospita. Bisogna dunque sempre aggiornarsi con libri, riviste (ancora esistono, eh!), il web, la televisione.

 

La scienza può rispondere a tutto?

La scienza è come una lanterna che uno ha in mano mentre avanza nel buio. Rischiara ciò che riesce a rischiarare. In passato ciò che non era spiegabile era ritenuto opera di divinità. Adesso sappiamo cosa è un fulmine, non bisogna chiamare Giove… Bisogna sempre avere una mente aperta, razionale: ciò che non è spiegabile non è che sia inspiegabile, semplicemente non abbiamo ancora le conoscenze per interpretarlo. La scienza è una chiave che ti apre delle porte: le porte chiuse non sono porte misteriose, non esiste in questo senso la parola “mistero”. Esistono dei fatti non ancora noti che verranno prima o poi capiti.

 

In qualche modo era prevedibile la pandemia da Covid 19? Cosa occorre migliorare nei Piani di prevenzione?

Le epidemie ci sono sempre state, collegate al tipo di vita, di trasporti e d’igiene che c’era in passato. Alcune hanno anche avuto effetti devastanti. Il Covid ci ha aperto gli occhi su una serie di cose: per esempio che certamente i Paesi sono molto più interconnessi gli uni agli altri – abbiamo dei mezzi di trasporto che sono velocissimi -, che siamo tutti una sola famiglia. Era prevedibile? Sì, come tutte le altre. Non era prevedibile il Covid in sé, ma qualsiasi esperto di epidemie sapeva che era solo questione di tempo. E poi vorrei ricordare che ogni inverno c’è l’influenza che arriva, sempre dall’Asia di solito, che è un’epidemia che tendiamo a sottovalutare ma che fa tanti morti. Il Covid ha avuto delle dinamiche e una struttura diverse, è un virus al di fuori delle conoscenze che avevamo. Però non è una novità. C’era da aspettarselo.

 

Cosa le è piaciuto di più della reazione degli italiani?

L’Italia ha reagito molto bene, subito, contrariamente ad altri Paesi dove vedo, con enorme tristezza, delle situazioni drammatiche. L’Italia si è comportata in un modo che mi rende orgoglioso di essere italiano. Ha affrontato subito il problema, ha subito cercato di delimitarlo, partendo dalla consapevolezza che molto probabilmente il Covid era presente nel nostro Paese già da qualche tempo. Ecco perché aveva messo radici così forti in determinate aree. Eppure siamo riusciti a contenerlo malgrado in certe zone, penso a Bergamo e alla Lombardia in generale, siamo stati travolti da un’epidemia terribile. In Europa chi non ha agito come noi ha dovuto piangere tanti morti.

 

L’Italia si è trovato nell’inedito ruolo di esempio da seguire. Come lo spiega?

In Italia abbiamo la forza della cultura alle nostre spalle. Il nostro modo di agire, così coeso da nord a sud, così di buonsenso, così lucido e limpido, secondo me è stato determinato dal fatto che il nostro modo di pensare è un accumulo di tanti modi di ragionare del passato. Abbiamo 3000 anni di civiltà dietro di noi. La maniera di ridere, di scherzare, di mangiare deriva dal passato. Così come il modo di affrontare i problemi. Le tante civiltà del passato ci hanno “bisbigliato” dei consigli su come agire, tutti insieme. Siamo un Paese che ha stupito tutti e che ha dimostrato che quello che si pensa di noi non è vero. E poi mi è piaciuta la solidarietà diffusa, le persone dai balconi, gli applausi. Tutto questo ha fatto capire che questo Paese è vivo, che ha sentito i morti come se fossero della propria famiglia. L’incredibile spirito di comunità che ha creato civiltà intere nel nostro Paese, che hanno insegnato al mondo come vivere, come fare le strade, come fare le leggi, qui si è risvegliato. Bisogna essere orgogliosi di essere italiani.

 

In tempi di Covid le scuole hanno funzionato con la formazione a distanza. Questa modalità potrà rivelarsi utile per il futuro o è un’esperienza da limitare a situazioni di emergenza?

È stata sicuramente un’esperienza importante che potrebbe rappresentare un punto di rottura rispetto al passato. Una volta superato il problema relativo alla strumentazione tecnologica non disponibile per tutti, si potrebbe anche sistematizzare e estendere a tutto il Paese come sta accadendo con lo smart working. La pandemia ha accelerato molti percorsi, cambiando a volte il nostro stile di vita. Certo, per quanto riguarda la scuola si tratterebbe di una nuova sfida. Ma io confido molto nell’italiano e nel suo spirito resiliente.

 

A proposito di scuola: a un giovane che volesse intraprendere un percorso da divulgatore scientifico, quale consiglio darebbe?

Innanzitutto di imparare le lingue, l’inglese soprattutto. Poi, di essere sempre curioso, e di andare sul web a caccia di notizie. Oggi ciò che ognuno ha dentro il cellulare è di più di quello che poteva fornire la biblioteca di Alessandria ai tempi di Cleopatra. Poi, consiglierei di viaggiare. Apre la mente. Adesso, comunque, un divulgatore ha un’arma in più rispetto a quando ho iniziato io, quando i social non esistevano. All’epoca si cominciava con lo spedire articoli ai giornali sperando che te li prendessero, o con le tv private…adesso, con web e social, è importante aprire delle pagine, dei blog e cominciare a lavorare lì. Perché la qualità paga sempre: quando sei bravo a fare qualche qualcosa alla fine diventi un riferimento. La parola chiave della divulgazione è curiosità, raccontare delle cose che incuriosiscono, con coinvolgimento emotivo. Bisogna raccontare bene le cose, far vedere passione, far entrare la conoscenza nella mente delle persone. La cosa più bella per un ragazzo o una ragazza che vuole fare divulgazione credo sia quella di soddisfare il primo ascoltatore, quello più esigente, e quello anche più affezionato: se stessi. Il piacere di svelare le cose a chi ti è davanti è un’emozione incredibile.

 

 

 

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