In viaggio attraverso la Cina. La scienza nel bagaglio di Matteo Ricci

In questi giorni,  nel 1610, nel Paese asiatico moriva il traduttore di Euclide, il cartografo, lo scienziato che sperava - attraverso il dialogo fra Oriente e Occidente - di convertire al cristianesimo il grande Impero

Oggi c’è un’intensa collaborazione scientifica fra l´Italia e la Cina con accordi di collaborazione che riguardano campi molto diversi. Roma lancerà insieme a Pechino un secondo satellite per il monitoraggio dei terremoti. Il primo, il Cses-1, al lavoro dal febbraio 2018, è l’unico strumento mandato in orbita per studiare dallo spazio i precursori dei fenomeni sismici.  Il suo “cervello” è un apparecchio costruito dagli scienziati italiani con il nome di Limadou. Era quello in mandarino di padre Matteo Ricci, esploratore della Cina nel XVI secolo.  È a lui che risalgono i contati scientifici tra i due Paesi.

Matteo Ricci era nato il 6 ottobre 1552 a Macerata dove aveva frequentato la scuola dei gesuiti finché il padre, volendo che diventasse avvocato, lo aveva mandato a Roma per studiare giurisprudenza al Collegio Romano. Attratto dall’attività e dagli ideali dei gesuiti, nel 1571 Matteo era entrato nel noviziato di Sant’Andrea al Quirinale dedicandosi, oltre che alla teologia e alla filosofia, a quegli studi scientifici che sembravano attrarlo, dall’astronomia alla cartografia, dalla cosmologia alla matematica. Fra i suoi maestri aveva il matematico tedesco padre Cristoforo Clavio, corrispondente di Galileo e Keplero, al quale sarebbe rimasto legato per tutta la vita.

Nel 1576 chiede di partire come missionario e due anni dopo raggiunge Goa, avamposto portoghese sulla costa indiana, dove per alcuni anni insegna greco nelle scuole della Compagnia. Finalmente nel 1583, ormai sacerdote, entra in Cina, a Zhaoquing, dove comincia a elaborare una propria maniera di presentare il cristianesimo alle élites cinesi, passando non attraverso la mediazione del buddismo come era d’uso ma attraverso il fascino che le sue conoscenze scientifiche potevano indurre negli interlocutori. Si sente circondato dalla curiosità degli abitanti e a sua volta si impegna a studiarne la lingua e a conoscerne i costumi. Ottiene il permesso di costruire per sé e per gli altri gesuiti una residenza che in breve, grazie all’architettura europea e alle “meraviglie” che vi sono esposte, dai cristalli agli orologi e ai prismi che riflettono la luce, diventa oggetto dell’interesse di molti esponenti dell’élite cinese. Per aiutarli a capire il Paese da cui proviene, Matteo Ricci, diventato ormai Li Madou, espone anche una carta del mondo dove aveva tradotto in cinese i termini e le spiegazioni originali latine, una carta che presentava i cinque continenti e non aveva la Cina al centro. Lo sconcerto è molto forte perché le carte cinesi non mostravano né l’Europa né l’Africa (al più alcuni territori dell’Asia centrale e quelli raggiunti da alcuni esploratori in Africa) e proponevano una Cina di dimensioni tali da esaurire praticamente il mondo conosciuto, Giappone e India compresi. Si apre così uno spiraglio: la cultura di Li Madou è degna di attenzione e il suo Paese è così lontano da non doverne temere gli eserciti.       

La stima di cui comincia a godere presso i sapienti cinesi non impedisce però che difficoltà e incidenti ritardino l’arrivo di padre Ricci a Pechino, la meta di tutto il viaggio. Nel frattempo, lo studioso incontra la matematica cinese. Per contare, i cinesi usavano l’abaco e non esisteva un calcolo scritto anche se, come nota Michela Fontana nella sua bella biografia del “gesuita alla corte dei Ming”, viene usato “un sistema di scrittura dei numeri posizionale in base dieci […] che aveva avuto origine molto tempo prima che il sistema analogo venisse adottato in India. I sistemi che rappresentavano le cifre da uno a nove erano composti da trattini verticali o orizzontali, mentre lo zero veniva simboleggiato da un circolo vuoto, come in Occidente”. Quindi comincia a raccontare la “sua” matematica, mostrando come scrivere i conti, come fare le operazioni e controllarne la correttezza secondo il metodo che si sta imponendo in Europa.  La comodità è evidente e fare “i calcoli con il pennello” diventa un atout importante per gli intellettuali che di formazione strettamente umanistica si facevano battere nell’aritmetica da qualunque mercante. 

In realtà, la matematica cinese all’epoca dei Ming non era arretrata come questa descrizione può lasciar pensare. Ancora Fontana scrive: “molti erano i matematici di rilievo e […] i risultati scientifici raggiunti potevano considerarsi significativi […]  È vero però che in epoca Ming la matematica e la scienza in generale attraversano una fase di declino rispetto al passato […] Era diventata introvabile, nella sua versione completa, persino l’opera più famosa, I nove capitoli sull’arte del contare che risaliva ai primi secoli a.C. ed era stata stampata per la prima volta nel 1084”.  Ricci paga la difficoltà nel comprendere una matematica che si era sviluppata con caratteristiche diverse da quelle che gli erano più familiari e tende a sottovalutarne metodi e risultati. I cinesi che incontra hanno un approccio più concreto al mondo dei numeri e delle figure di quanto non abbiano i testi greci su cui si è formato. Così, quando propone di studiare gli Elementi di Euclide, la novità è grande. Risultati che la geometria cinese conosce come conseguenza di operazioni concrete qui trovano una dimostrazione “astratta” che li fa discendere da assunzioni convenzionali. Il suo allievo Qu Taisu ne è talmente coinvolto da tradurre in cinese il primo libro.

Non è questa l’unica traduzione che Ricci curerà. Nell’estate del 1606, incomincia a spiegare a Xu Guangqi – un mandarino convertito al cattolicesimo, personaggio molto in vista nella corte dei Ming, ministro dei Riti e precettore dell’erede al trono – il testo euclideo, a tradurlo oralmente dalla versione latina curata da Clavio e a discutere le possibili alternative nella formulazione in cinese finché Xu Guangqi scrive in lingua colta quanto hanno concordato. Il risultato della collaborazione sarà così felice che molti dei termini da loro introdotti sono entrati nel linguaggio matematico usato ancora oggi in Cina. Verranno tradotti in questo modo i primi sei libri del testo di Euclide e avranno due prefazioni, una di Li-Madou e una di Xu Guangqi. Nella prima, Ricci ripercorre quella originale di Clavio inserendovi concetti che i letterati confuciani potranno sentire più vicini, a partire dalla necessità di studiare il mondo e i fenomeni della natura. Già Clavio nel suo testo si era speso in un grande elogio della matematica, ma Li Madou arriva a paragonarla a una scala indispensabile per raggiungere le diverse branche della conoscenza. Non serve solo a studiare l’universo, a disegnare le carte geografiche o a costruire il calendario, ma aiuta i governanti a conoscere il territorio su cui esercitano il loro potere e… a vincere le guerre. Nella seconda prefazione, Xu Guangqi, per facilitare la diffusione della geometria euclidea fra le élites cinesi, cerca – come insegna il confucianesimo – un aggancio con il passato e lo trova nel momento in cui il Primo Imperatore nel 213 a. C. ha mandato al rogo tutti i testi perché nessuno potesse mettere in dubbio la sua autorità usando la tradizione. In questo modo riesce a individuare un “prima” in cui la matematica è strumento rispettato e potente e un “dopo” fatto di incertezze e di buio. Lo studio della geometria euclidea può allora aiutare ad affinare la mente costruendo un sapere solido e ben fondato e a migliorare sé stessi.

Quest’opera impegnativa che, secondo lo stesso Ricci, sarà “più ammirata che compresa” dai contemporanei contribuirà tuttavia a porre le basi di un confronto fra la matematica cinese e quella occidentale, confronto che sta alla base della successiva storia della scienza nell’Impero.

Finalmente, il 24 gennaio 1601, Ricci arriva a Pechino, la sua ultima residenza. Ammesso a corte, continua a mantenere stretti rapporti con l’intellighenzia, a far proselitismo e a scrivere. Nel 1602, con l’astronomo Li Zhiazao realizza una nuova edizione (la terza) del suo mappamondo, la Carta completa della miriadi di paesi sulla Terra. Costituita da sei pannelli per uno sviluppo di 4 metri per 2, avrà un grande successo e verrà più volte riprodotta. La Cina è disegnata al centro di un ovale e molta cura è posta a dare nomi cinesi a Paesi e località sparsi nei 5 continenti, con la sola avvertenza di usare quelli dati dagli esploratori cinesi là dove erano arrivati. Le Marche sono state così, fra i mille toponimi della carta, la prima regione italiana ad avere un nome cinese! 

Nonostante l’impegno scientifico, Ricci continua a Pechino la sua opera di diffusione del cristianesimo, fino a scrivere l’opera che più gli sta a cuore, il Catechismo, in qualche senso l’esito più compiuto del suo confronto con la filosofia confuciana. Come scrive ancora Fontana, il cristianesimo non solo è compatibile con la dottrina di Confucio, ma è l’unica religione che rispecchi pienamente gli insegnamenti del confucianesimo antico prima che venisse contaminato dall’incontro con il buddismo. È uno sforzo molto ingegnoso teso a superare, sia pure ai fini dell’evangelizzazione, l’abisso fra concezioni del mondo cinesi e occidentali, ma è uno sforzo che contribuisce a prosciugare le forze di uno stanco Li-Madou. L’11 maggio 1610 Ricci muore nella residenza missionaria di Pechino. L’imperatore proclama un giorno di lutto nazionale e, per la prima volta nella storia della Cina, consente che uno straniero venga sepolto nel territorio imperiale. Un grande riconoscimento, forse il più alto per uno straniero.

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