Per Vittoria Bussi, detentrice del record mondiale dell’ora, lo sport è stata una scoperta tardiva. Prima c’era stata una laurea in matematica, un dottorato a Oxford e una posizione di post-doc all’Ictp di Trieste
È la donna più veloce al mondo in bicicletta, per lo meno quella che in un’ora ha percorso più chilometri: quarantotto e sette metri macinati sulla pista messicana di Aguascalientes. Dopo il record dell’ora su pista, Vittoria si è cimentata anche nelle gare su strada. Quest’anno è arrivata quinta nella prova individuale dei Campionati europei mentre ai Campionati del mondo, svoltisi a Imola, si è classificata decima, migliore italiana, nella cronometro individuale. Vittoria Bussi ha scoperto il ciclismo abbastanza tardi, dopo una laurea in matematica a Roma con una tesi di laurea sulla geometria algebrica, trascinata nel mondo dei numeri da Ida Spagnolo, “una bravissima professoressa di matematica” del liceo classico “Francesco Vivona” di Roma. La laurea è stata poi seguita da un dottorato a Oxford e da un’esperienza post-doc all’Istituto Abdus Salam di fisica teorica di Trieste.
Che ricordo hai dell’Università?
Sono stati anni belli. Le amicizie migliori le ho trovate in facoltà e me le porto ancora dietro. Io ero una che lavorava molto, a volte anche troppo. Ricordo che una volta, per non fare tardi a lezione, mi sono anche rotta un piede.
Come ti sei avvicinata al ciclismo dopo tanti anni di vita universitaria?
Nel 2014 dopo la laurea in matematica mi sono trasferita a Oxford perché ho vinto un dottorato. Lì ho continuato a praticare l’atletica ma soprattutto ho scoperto il triathlon. Era un nuovo modo per cercare di mettere a tacere il dolore dovuto alla perdita di mio padre. Tra i tre sport previsti c’era anche il ciclismo. Non sono più scesa dal sellino.
Quando hai capito che poteva diventare anche la tua “vita”?
Nel luglio del 2015 ho vinto una gara importante del calendario inglese. Insomma, ho iniziato a gareggiare e subito ho ottenuto le prime vittorie. La curiosità è aumentata e, come per ogni cosa nella mia vita, ho deciso di prendere la sfida di petto e iscrivermi a una società professionistica toscana. Era il 2016: avevo voglia di tornare in Italia, il dottorato era agli sgoccioli e mi sono giocata il tutto per tutto.
In che modo la matematica è entrata nel tuo nuovo impegno?
Io ho un approccio scientifico, rigoroso, alle gare. Il ciclismo, come lo sport in generale, è una sequenza di numeri. Ogni cosa può essere tradotta in numeri e coefficienti e questo vale soprattutto nelle crono. Il percorso, ad esempio, dove si studiano traiettorie, velocità, resistenza al vento, misurazione dello sforzo erogato. Poi c’è un aspetto aerodinamico che è fondamentale perché lo studio dell’impatto di un corpo non fluido riguarda la matematica dei fluidi. Lo studio aerodinamico della posizione e dei materiali è fondamentale. La formula che più uso nello sport è quella del coefficiente di resistenza aerodinamica.
Quindi il tuo segreto è far coesistere fatica e concentrazione?
No, anzi, è l’esatto contrario! Lo sforzo maggiore mentre corro è non pensare alla gara. In una corsa a cronometro in pista ogni giro è uguale a se stesso, ogni venti secondi sei nello stesso posto di prima. L’unica cosa che mi salva è non pensare a cosa sto facendo, alla pedalata e tutto il resto. Se ti concentri sullo sforzo è finita, come quando fai un viaggio lungo e stai con gli occhi sul contachilometri e credi di non arrivare più. Se pensi ad altro, non ti concentri sulla fatica che in quel momento è li che ti dice di fermarti perché il corpo prova a difendersi.
Il ciclismo quindi non è un’equazione?
No, non direi. Nelle equazioni, una volta determinati tutti gli elementi, il risultato finale è immodificabile. Nel ciclismo no. C’è sempre qualcosa che sfugge ai numeri, ai calcoli. Ci sono giorni in cui, nonostante tutti i calcoli che ti sei fatto, qualcosa non torna e allora devi metterci del tuo, devi metterci il cuore oltre la testa e le gambe. Un elemento questo difficilmente inquadrabile in una equazione matematica. Quando gareggi in un mondiale e pensi di mollare, la maglia dell’Italia ti porta a tirare fuori quel qualcosa in più che le formule non sanno calcolare.
A proposito di mondiale, il tuo esordio azzurro in una gara iridata ti ha portato nella top ten.
Sì, sono molto felice. Un risutato per me straordinario. A 33 anni ho ancora molto da dare. A dire il vero, questo è stato un anno incredibile. Oltre al decimo posto mondiale, sono tra i primi cinque in Europa. Sogno l’Olimpiade ma è più complicato.
Coraggiosa in pista così come nella vita. Al premier Conte, il giorno che hai ricevuto il “collare d’oro” hai detto che sulla sicurezza in strada bisogna fare di più…
Io sono stata investita già due volte mentre mi allenavo. La questione della sicurezza in strada è un tema molto importante su cui anche il governo deve avviare una campagna di sensibilizzazione. Da parte mia, voglio far capire che non è una guerra tra automobilisti e ciclisti ma una questione di educazione civica.