Mala tempora currunt?

Che meraviglia, la fisica italiana: quando non siamo impegnati a spiegare l’universo, troviamo sempre un momento per spaccarci l’atomo… tra di noi.”

Inizia così l’articolo di Gabriella Greison del 15 Agosto in risposta alla controversia tra i fisici Carlo Rovelli e Angela Bracco, presidente della Società Italiana di Fisica, in merito ad un episodio della serie del Corriere della Sera “La bomba atomica” su Enrico Fermi.

Ma siamo sicuri che questo “spaccarsi l’atomo” tra fisici faccia bene alla scienza?

Iniziamo dal principio.

Alla vigilia dell’ottantesimo anniversario del bombardamento atomico delle città di Hiroshima e Nagasaki il fisico Carlo Rovelli ha inaugurato su Corriere.it la sua serie video in dieci puntate “La bomba atomica. La cattiva coscienza della fisica. Riflessioni personali sul nucleare”.

La prima puntuta era dedicata ad uno dei più grandi fisici della storia, Enrico Fermi, e proprio in merito al video il 14 agosto Angela Bracco ha inviato a Il Corriere della Sera una lettera, condivisa da parte di numerosi colleghi, difendendo con forza la memoria di Fermi con tono fermo e indignato (qui l’intervento completo di Bracco  mentre qui l’articolo in risposta a Rovelli pubblicato sul sito web della Scuola Normale Superiore di Pisa).

La professoressa Bracco ha sottolineato il valore scientifico e umano di Fermi ricordando i suoi contributi fondamentali alla fisica e il contesto storico in cui ha operato, reputando le parole di Rovelli ingiuste, superficiali e potenzialmente pericolose in quanto capaci di distorcere la percezione pubblica di uno dei più grandi scienziati italiani. Bracco ha inoltre criticato l’idea che la scienza debba essere giudicata solo in base alle sue conseguenze morali, senza considerare il contesto e le intenzioni, invitando ad una riflessione più equilibrata e rispettosa, soprattutto quando si parla di figure storiche complesse come quella di Fermi.

Rovelli ha risposto alle accuse inviategli analizzando più in dettaglio la figura del fisico, perché non c’è dubbio che nel video iniziale troppo poco era stato detto riguardo a questo grande scienziato.

Chiarisce quindi il suo pensiero, descrivendo Enrico Fermi come uno dei più grandi fisici della storia, paragonabile a Einstein e Dirac: uno scienziato che ha avuto un’impronta profonda sia nella teoria che nella pratica, basti pensare che ha contribuito in modo decisivo alla nascita della fisica moderna. Ma ciò che lo rendeva unico, secondo Rovelli, era il suo modo di “sentire” la fisica: Fermi riusciva a intuire fenomeni ancora prima che fossero dimostrati e trasmetteva questo approccio ai suoi studenti, creando una scuola di pensiero tutta italiana. (qui la risposta completa di Rovelli ).

Rovelli continua poi spiegando che Fermi non era un uomo politico, ma un ricercatore che si muoveva nel contesto storico in cui viveva: nel suo video non voleva giudicarlo, ma provare a sottolineare che oggi, in un mondo minacciato dal rischio nucleare, gli scienziati non possono più permettersi di essere neutrali, ma devono assumersi anche una responsabilità etica.

Il dibattito, sicuramente interessante, permette di riflettere su alcuni temi molto importanti. Il primo tema è quello della “responsabilità scientifica” e cosa significhi davvero. È giusto giudicare con il senno di poi? Oppure è più utile cercare di capire, senza assolvere né condannare, ma interrogandoci sul rapporto tra sapere, potere e coscienza?

Personalmente, credo che la memoria scientifica vada custodita con rispetto, ma anche con onestà. Sicuramente Fermi è stato un gigante, e come tutti i giganti ha lasciato un’ombra lunga, ma sarebbe un grosso errore ridurlo solo a quell’ombra.

Ad integrazione di quanto detto da Rovelli, vale la pena di approfittare della biografia molto documentata dal titolo “Enrico Fermi: L’ultimo uomo che sapeva tutto” di David N. Schwartz che è una fonte di informazioni di prima mano indispensabili per capire la complessità della figura di Fermi.

Un aspetto di questo scienziato spesso sottovalutato, e di cui ci oggi sarebbe un gran bisogno, è quello di Enrico Fermi come insegnante, caratteristica che pochi grandi scienziati hanno avuto.

Per dirlo con le parole di Schwartz. “Non tutti i grandi ricercatori universitari sono anche grandi insegnanti. Rabi e Teller erano scienziati eccelsi ma, a detta di tutti, in aula entrambi se la cavavano male. Fermi, invece, era un docente eccezionale. Le sue lezioni a Roma erano memorabili, e negli Stati Uniti gli studenti accorrevano ai corsi estivi per ascoltarlo. A Los Alamos i fisici affollavano le sue lezioni, in particolare dopo la fine della guerra. Tornato a Chicago, si lanciò nell’insegnamento con rinnovato vigore. I risultati furono spettacolari. Un uomo della sua statura avrebbe potuto facilmente trovare il modo di insegnare il minimo indispensabile, mentre tenne sempre due o tre corsi ogni semestre”.

I suoi studenti e collaboratori danno un giudizio unanime: non fu solo un genio della fisica, ma anche un insegnante straordinario, capace di lasciare un’impronta profonda nella formazione di generazioni di scienziati sia in Italia che negli Stati Uniti. Fu in grado di formare una scuola ovunque andasse grazie alla sua capacità di unire la teoria ad una grande abilità sperimentale, incoraggiando gli studenti a “sporcarsi le mani” con la fisica reale. Questo approccio fu fondamentale sia per la nascita della famosa scuola di via Panisperna che per la costruzione della prima pila atomica a Chicago. Non è un caso che, quando si creò, a Chicago nel 1974, il più grande Laboratorio di fisica atomica, lo si chiamò FermiLab.

David Schwartz suggerisce che la “colpa” di Fermi, se così si può definire, fu quella di non essersi mai interessato alle implicazioni filosofiche e cosmologiche delle sue ricerche. Egli era completamente devoto alla fisica, con una routine e una dedizione totali che lo portavano ad un certo distacco anche dalla sua famiglia. Questo indica che il suo focus principale era sulla scienza in sé, piuttosto che sulle sue conseguenze sociali o politiche.

La sua partecipazione al Progetto Manhattan – cui parteciparono centinaia di scienziati, tra cui Hans Bethe, Richard Feynman, Isidor Rabi, John von Neumann e molti altri – che portò alla creazione della bomba atomica è vista come il culmine di questa sua tendenza. Fermi era un uomo che creava e non distruggeva, eppure le sue scoperte furono utilizzate per creare un’arma di distruzione. Il suo contributo principale fu quello di guidare il team che realizzò la prima reazione nucleare controllata (2 dicembre 1942), un passo fondamentale per dimostrare la fattibilità di un reattore e, indirettamente, della bomba atomica.

Il secondo tema è che la scienza non è solo progresso tecnico: è anche etica, dubbio e capacità di guardarsi indietro. La storia di Fermi è esemplare per un a riflessione sul ruolo e la responsabilità dello scienziato: il suo esempio dimostra come le scoperte, nate dalla ricerca per la conoscenza, possano avere un impatto profondo e non sempre positivo sulla società. La corsa agli armamenti mostrò come la scienza potesse essere condizionata da interessi politici e militari, sollevando interrogativi su chi dovesse controllare e indirizzare l’uso delle nuove conoscenze. In questo senso, la sua figura rappresenta un monito sulla necessità di riflettere su quando la scienza debba “fermarsi” per non diventare una minaccia per l’umanità.

Un esempio in questo senso sono stati gli accordi tra biologi riguardo al DNA ricombinante, soprattutto nei suoi primi anni di sviluppo. Uno dei momenti chiave fu la Conferenza di Asilomar del 1975, tenutasi in California, dove scienziati di tutto il mondo si riunirono per discutere i rischi e le implicazioni etiche della tecnologia del DNA ricombinante.

L’accordo fu un esempio raro di autoregolamentazione scientifica, dove la comunità si impose limiti prima che i governi intervenissero.

Fu un modello per la gestione etica delle tecnologie emergenti. Terapie geniche avanzate (ad esempio, editing di precisione come CRISPR/Cas9) hanno rivoluzionato la capacità di tagliare e sostituire sequenze specifiche di DNA e stanno già curando malattie rare e tumori, spingendo verso protocolli clinici sempre più sofisticati.

Questi risultati sono stati possibili grazie ad una vasta collaborazione tra tutti gli scienziati coinvolti in questo programma, collaborazione nella quale i risultati dei singoli ricercatori erano immediatamente condivisi con tutta la comunità scientifica. Un altro mondo rispetto a quello in cui Fermi si trovò impegnato nel Progetto Manhattan, dove tutto doveva procedere nella massima segretezza.

Infine, l’ultimo tema è se queste diatribe che si generano tra scienziati facciano bene al sapere o non stiano invece progressivamente allontanando la gente dalla scienza.

Viviamo in un’epoca in cui la competenza viene spesso messa in discussione e l’opinione personale, qualunque essa sia, sembra valere quanto la conoscenza scientifica. Troppo spesso “fake news”, diffuse da persone assolutamente incompetenti sull’argomento, vengono prese più seriamente delle parole di esperti che hanno alle spalle decenni di studio. “Non si fidano di niente e perciò credono a tutto. Qualsiasi stramberia è buona per dare un senso alle cose” (I demoni della mente, Mattia Ferraresi).

Nella società odierna rischiano di prevalere posizioni antiscientifiche da cui la gente deve capire come prendere le distanze. Quando, nel mezzo di un’epidemia, metà della popolazione crede più a un post su un social network che a decenni di studi epidemiologici, non parliamo più di libertà d’opinione: parliamo di un collasso cognitivo. Il rifiuto degli esperti in momenti critici non è solo un atto individuale: è una minaccia collettiva.

Ma perché accade questo?  Davvero mala tempora currunt?

La capillarità di Internet ed il world wide web che, in quanto ad impatto se la gioca con l’invenzione della stampa, da grande possibilità di diffusione della conoscenza si è trasformata nel suo opposto. L’eterogenesi dei fini, ossia quel meccanismo per cui il risultato di un’azione collettiva o individuale sfugge completamente all’intenzione originaria, è implacabile. Edgar Morin la integra nella sua teoria della complessità. Per Morin l’eterogenesi dei fini diventa un fenomeno strutturale di ogni sistema complesso, non un semplice incidente di percorso.

Tom Nichols nel suo libro “La conoscenza e i suoi nemici” esamina la fine della competenza e non a caso mette per sottotitolo “L’era dell’incompetenza e i rischi per la democrazia”. L’autore denuncia quella che definisce “l’era dell’incompetenza”: una cultura in cui l’ignoranza non è più solo tollerata, ma ostentata come segno di autonomia e in cui l’opinione personale viene considerata equivalente al sapere specialistico.

Michele Serra ha ironizzato sull’argomento, in una sua Amaca quotidiana su Repubblica, dicendo “E infatti, in Italia, siamo riusciti a far diventare il virologo di fiducia… il nostro barista. Simpatico, eh, prepara un ottimo cappuccino e ha visto due video su YouTube sull’argomento”.

Il pericolo di questo distacco delle persone comuni dalla conoscenza è stato sperimentato nel caso del COVID-19, dove, bisogna ammettere, la categoria degli “esperti” non ha dato il meglio di sé, trovandosi spesso in disaccordo e a litigare tra loro. Inoltre, l’incapacità di ammettere errori e limiti, li ha resi facili bersagli di critiche e diffamazioni, spesso immeritate, ma cavalcate da media e politici irresponsabili. Chi interrogava gli esperti si aspettava da loro risposte certe, ma non è così che funziona la scienza. Non c’è niente di più antiscientifico che dire “lo dice la scienza”, come se fosse una conoscenza fissa e indiscutibile come un precetto divino, quando invece è molto più modesta ed è consapevole che la conoscenza del mondo è sempre imperfetta e passibile di revisione. Le risposte non erano certe né univoche, e ai più sfuggiva il fatto che non potevano esserlo.

Come dice David Quammen nel suo libro Senza respiro (Adelphi, 2022): “La scienza è anche un’attività umana; gli scienziati sono persone che si impegnano e si sacrificano, prendono cantonate e sono vittime della sfortuna, rispondono a incentivi di carriera e pressioni personali, proprio come tutti gli altri. Sono fallibili. Sanno cose che il resto di noi non sa, ma non hanno risposte a tutte le domande urgenti sul Sars CoV-2. Una cosa però la sanno, almeno i più saggi, ed è che le loro conoscenze sono frammentarie e provvisorie. La scienza è sempre provvisoria. Il dibattito scientifico su questo virus è stato un fiume in piena di preprint e studi pubblicati, di dati, analisi e speculazioni, di errori in buona fede, affermazioni affrettate e ritrattazioni, di rettifiche a cose dette in via ipotetica il mese prima, e di deduzioni accurate a partire da fatti accuratamente raccolti, da cui sono nate intuizioni che sembrano destinate a superare la prova del tempo”.

Questo è il modo di procedere della scienza, per tentativi, ed è così che è stato ottenuto un risultato strabiliante: la formulazione, in meno di un anno, di un vaccino a mRNA, un tipo completamente nuovo, che ha evitato la morte di milioni di persone e a cui non si è dato il sufficiente risalto preferendo focalizzarsi solo sui dissidi tra scienziati.

Perché purtroppo la politica e la società sembrano viaggiare su binari lontani dalla scienza ed i “no vax” possono occupare posti di prestigio nella gestione della sanità pubblica. In fin dei conti la nostra Costituzione garantisce libertà di parola.
In futuro sperimenteremo anche gli effetti del negazionismo nei confronti del cambiamento climatico, vederne gli effetti è solo questione di tempo. Sarà la natura a presentarci il conto, ed i conti della natura hanno sempre la spiacevolezza di essere eccessivi. “Il Dio ecologico non è misericordioso, è incorruttibile, non lo si piò placare con preghiere e sacrifici” (G. Bateson).

In un mondo sempre più complesso, abbiamo bisogno di tornare a fidarci della conoscenza, non come strumento di dominio, ma come fondamento di dialogo, progresso e libertà. Solo così potremo affrontare le sfide del presente con lucidità e costruire un futuro in cui la competenza non sia un nemico, ma un alleato.

Per concludere, tornando alla figura di Enrico Fermi, possiamo quindi dire che rappresenta l’antitesi dell’incompetenza orgogliosamente rivendicata, incarnando quel modello di scienziato che Nichols vorrebbe vedere riconosciuto e ascoltato: competente, consapevole e capace di contribuire al bene comune.

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