Quella delle scale termometriche è una lunga storia che ha origine nel Seicento con Galileo e l’invenzione del primo termometro. Da Newton in poi sono stati molti i tentativi e tante le interpretazioni. Fino a quando lo svedese Anders Celsius non ha messo (quasi) tutti d’accordo
Se il medico vi dice: “Non si preoccupi, ha solo 560 gradi di febbre”, ci sono diverse possibili spiegazioni. La più probabile è che il medico sia un burlone oppure che abbiate capito male. Un’altra eventualità, per quanto poco verosimile, è che il medico abbia deciso di adottare la scala Rankine. Ideata nel 1859 dallo scozzese William John Macquorn Rankine, è l’ultima in ordine di tempo di una lunga serie di scale termometriche.
Da quando Galileo inventò nel Seicento il primo termometro, numerosi scienziati si sono detti che, oltre a uno strumento di misura per la temperatura, serviva anche una scala in base alla quale determinarne i valori. Dal Settecento in poi molti si sono cimentati in questa impresa. Il primo è stato Newton (c’entra sempre Newton…): intorno al 1700 ha elaborato una scala rudimentale e arzigogolata, basata su 18 punti di riferimento (alcuni dei quali poco chiari, come “la temperatura a mezzogiorno di un giorno di luglio”). Era comunque un primo tentativo.
Nel 1701 il danese Ole Christensen Rømer ha avuto l’idea vincente: scegliere due valori di riferimento ben definiti e poi dividere in parti uguali l’intervallo compreso. I suoi valori erano però un po’ macchinosi: 7,5 gradi per la fusione del ghiaccio e 60 gradi per l’ebollizione dell’acqua. Per oltre un secolo tutti hanno seguito la sua idea di base. Ha cominciato nel 1724 il tedesco Daniel Gabriel Fahrenheit: 0 gradi per la temperatura di equilibrio di una miscela di acqua, sale e ghiaccio di sua invenzione, e 96 gradi per la temperatura media del corpo umano (nella versione aggiornata, la scala Fahrenheit è definita in base a due parametri più precisi: 32 gradi è la temperatura a cui il ghiaccio fonde e 212 quella a cui l’acqua bolle). Oggi la scala Fahrenheit è adottata in pochi Paesi (uno dei quali però è piuttosto importante, per cui a volte siamo costretti a complicate conversioni): Belize, Palau, isole Bahamas, isole Cayman e Stati Uniti d’America.
Nel 1730 è stata la volta del francese René Antoine Ferchault de Réaumur: nella sua scala (che fino all’Ottocento ha goduto di un certo successo), 0 gradi è la temperatura di fusione del ghiaccio e 80 gradi quella dell’ebollizione dell’acqua. Due anni dopo, un altro francese, Joseph-Nicolas Delisle, ha letteralmente ribaltato tutti gli approcci precedenti: per lui le temperature più fredde erano le più alte. Del resto, perché no? L’orientamento della scala è arbitrario: non c’è nessun motivo, se non la consuetudine, per associare valori più alti a temperature più calde.
Nel 1742 finalmente è nata la scala centigrada, ideata dallo svedese Anders Celsius. Anche lui però, all’inizio, aveva seguito il metodo “sottosopra” di Delisle: nella sua scala originaria (poi capovolta dopo la sua morte) il ghiaccio fonde a 100 gradi e l’acqua bolle a 0 gradi.
In questo profluvio di idee più o meno sensate, i fisici hanno sentito l’esigenza di una scala universale. La risposta a questa domanda è arrivata nel 1848 dall’irlandese William Thomson, barone di Kelvin, che ha scelto come zero il valore più oggettivo possibile: -273,15 gradi Celsius, cioè lo zero assoluto, la temperatura sotto la quale è fisicamente impossibile andare. Perciò la temperatura Kelvin è detta anche assoluta. Kelvin ha anche rinnegato per primo il metodo Rømer, rinunciando a un secondo valore di riferimento: l’ampiezza di un grado è per definizione quella di un grado Celsius. Così il ghiaccio fonde a 273,15 Kelvin, una febbre a 40 è 313,15 Kelvin e così via.
A ben vedere, però, qui rientra dalla finestra un certo margine di arbitrarietà che era stato cacciato dalla porta: perché l’ampiezza deve essere proprio quella del grado Celsius? Solo perché quella era ormai la scala più diffusa al mondo. Ecco allora che compare la scala Rankine: parte dello zero assoluto come quella di Kelvin (ed è quindi altrettanto “assoluta”), ma l’ampiezza del grado è quella del grado Fahrenheit. Così una febbre a 560 Rankine corrisponde circa a 38 Celsius: non c’è da preoccuparsi!