Una delle ultime frasi pubbliche di Papa Francesco ha saputo esprimere in modo folgorante un sentimento che provo anch’io, e penso molti, quando visitiamo un carcere. Uscendo dalla casa circondariale Regina Coeli, Francesco ha detto: “Ogni volta che entro in questi posti mi domando perché loro e non io”.
Porsi tale domanda è rivoluzionario nella società attuale, perché già significa un rifiuto della risposta superficiale: loro hanno commesso un reato per il quale sono stati puniti mentre io no (e volutamente lascio qui un fondo di ambiguità strutturale). Risposta questa che trascina la giustificazione semplicistica di tante ingiustizie: quisque faber fortunae suae. La risposta profonda alla domanda di Francesco invece è una riformulazione della domanda stessa: perché loro non hanno avuto il privilegio di vivere in un contesto che favorisce l’emancipazione mentre io sì?
Nella risposta banale alla domanda di Francesco, vi sono due pericolosi pregiudizi, profondamente radicati nella coscienza collettiva, che sono alla base della morale oggi emergente.
Il primo è quello della cosiddetta giustizia retributiva, della legge del taglione, che compare numerose volte nel Pentateuco nella Bibbia, e che vergognosamente tacita le coscienze di moltissimi di fronte al genocidio di Gaza. È la consacrazione della giustizia come vendetta. Non è certamente l’unico tipo di giustizia. Il codice ittita di Nešilim, più di 3.500 anni fa, prevedeva una giustizia riparativa che purtroppo non ha preso altrettanto piede.
Il secondo pregiudizio è invece l’equazione morale: fallimento = colpa. È l’ideologia del segretario alla salute americano Kennedy che colpevolizza il malato perché non ha voluto scegliersi uno stile di vita sanoe palestrato. È la concezione della società nella quale chi fallisce è colpevole del proprio fallimento e quindi va punito, esimendoci così dal dovere di aiutarlo. È il pregiudizio che accompagna il concetto di merito: chi non ne ha è il solo responsabile di non averlo. Dunque può essere abbandonato, o per lo meno ci giustifica ad essere indifferenti alla sua disgrazia, perché “se l’è cercata”, è la sua “giusta punizione”.
Questi sono pregiudizi molto pericolosi, perché propugnano un concetto di merito competitivo che vieta la solidarietà che invece è alla base delle alleanze win-win, le uniche che permettono di affrontare e gestire le problematiche globali come quelle della guerra o della tutela del nostro habitat.
Personalmente, ritengo fondamentale liberarsi da tali pregiudizi e, per non limitarmi a ripetere l’interrogativo di Francesco, penso sia indispensabile denunciare la disparità quale unica vera malattia della società contemporanea.
L’imperativo categorico, troppo individualistico, andrebbe modificato giudicando morale solamente ogni azione che vada nella direzione di ridurre la disparità. L’unica vera risposta alla domanda di Francesco è riconoscere che loro sono noi.