La libertà è terapeutica. Quello che nel 1973 l’artista triestino Ugo Guarino scrive in rosso, a caratteri cubitali, sui muri dell’ospedale psichiatrico di Trieste diventa ben presto lo slogan di una rivoluzione copernicana che porterà alla chiusura dei manicomi in Italia. Il 13 maggio 1978, infatti, il Parlamento approva la Legge 180, la cosiddetta Legge Basaglia, dal nome dello psichiatra che ha voluto scardinare i cancelli della psichiatria, restituendo diritto di cittadinanza ai matti. Basaglia aprì le porte dei reparti e i cancelli del manicomio in modo che i malati fossero liberi di uscire e i cittadini di entrare. Peppe Dell’Acqua, classe 1947, allora era un giovane psichiatra e dal primo incontro con Franco Basaglia, “l’uomo che ha restituito la parola ai matti”, non ha mai smesso di portare avanti la sua lezione. “L’ho incontrato per la prima volta attraverso le pagine dell’Istituzione negata, quando ero uno studente di medicina all’università di Napoli. Poi l’ho conosciuto al manicomio di Colorno. Non indossava il camice bianco e a noi studenti si rivolgeva in modo informale”. Era il 1971 e di lì a poco Basaglia si sarebbe trasferito a Trieste, a dirigere l’ospedale psichiatrico della città. Basaglia stava costruendo la squadra con la quale lavorare per realizzare qualcosa che sembrava impossibile: smantellare quell’istituzione totale che era il manicomio. Non un luogo di cura, ma di detenzione e alienazione, non migliorabile come non è migliorabile l’idea del lager. Peppe Dell’Acqua fin da subito partecipa a quella eccezionale avventura che definisce “la straordinaria trasformazione del grande ospedale psichiatrico, da degradante e degradato manicomio a scuola di libertà”. In teatro, seduto su una panchina rossa, Peppe Dell’Acqua ricorda questa bellissima pagina della storia italiana, intrecciando la sua vicenda a quella delle donne e degli uomini che hanno contribuito a quella impensabile liberazione. Una storia collettiva. Perché assieme a Franco Basaglia, infermieri e infermiere, psichiatri e psichiatre, studenti e studentesse di psicologia, operatori sanitari e artisti hanno intrapreso un cammino per mettere tra parentesi la malattia e liberare i matti dalla contenzione. “Perché i manicomi erano istituzioni totalizzanti, luoghi di detenzione dove la violenza, l’elettro-shock, la camicia di forza, l’alienazione erano la prassi. I malati erano internati, non persone”, racconta Dell’Acqua, per 17 anni direttore del Dipartimento di Salute mentale di Trieste.“(Tra Parentesi) La vera storia di un’impensabile liberazione” è lo spettacolo teatrale diretto da Erika Rossi, scritto e interpretato proprio da Peppe Dell’Acqua e dal conduttore radiofonico Massimo Cirri. In occasione del centenario della nascita di Basaglia, lo spettacolo è tornato al Politeama “Rossetti” di Trieste. Qui, cinquant’anni fa, è accaduto qualcosa di impensabile fino ad allora che ha cambiato la vita a milioni di persone. Quando Basaglia arriva a Trieste, e Peppe Dell’Acqua con lui, l’ospedale psichiatrico della città ospita 1.182 persone, la maggior parte in regime coatto. Si poteva finire in manicomio anche perché si era disabili o solo orfani o bambini inquieti e disturbati. “Comincia allora una nuova scena della cura, quella della libertà, dell’incontro, della reciprocità. Perché, se il manicomio è la negazione dell’altro, la negazione della dialettica salute-malattia, aprendo le sue porte e interrogandoci sulla natura della malattia stessa abbiamo cercato di trovare la presenza dell’umano”. Non può esistere, spiega Dell’Acqua, una condizione di assenza totale di salute. Perché la vita è come un tiro alla fune tra salute e malattia. La Legge 180 scardina dunque il vecchio paradigma e, dopo due secoli dalla sua istituzione, smantella il manicomio, riformando il sistema di cura. Il nuovo modello è la psichiatria di comunità, con servizi territoriali di cura, ospitalità, assistenza. Una rivoluzione che, però, ha avuto i suoi detrattori. C’è chi, infatti, ha accusato Basaglia di aver abbandonato i matti e le loro famiglie in balia della follia. “Mi occupo di matti da ormai troppo tempo – aggiunge Dell’Acqua – e ho avuto modo di incontrare amministratori, assessori, accademici. In molti fanno ancora fatica a comprendere che curare una persona che vive l’avventura del disturbo mentale non significa predisporre letti, sistemi di controllo e di sicurezza. Il modello dello psichiatra in camice bianco che fa diagnosi, prescrive farmaci e invia in “strutture” quelli che danno fastidio e sono poveri è superato e perdente. Le persone – sottolinea lo psichiatra – hanno bisogno di essere seguite, aiutate, valorizzate da centri accoglienti e sempre aperti: servizi di salute mentale aperti 24 ore al giorno ogni giorno. Hanno bisogno di comunità terapeutiche, di parlare, ritornare nelle relazioni, lavorare e anche scrivere, cantare, fare teatro, giocare a calcio, riprendere in mano il violino o la fisarmonica. Osare persino di innamorarsi. E di guarire”. La questione, spiega Dell’Acqua, “non è dove metto il matto, ma cosa faccio per il matto”. Basaglia è stato molto chiaro in questo. “Libertà vuol dire responsabilità. Esserci”. Basaglia non nega che le persone abbiano bisogno di cura. La cura per i matti è un diritto garantito dalla Costituzione. È invece un obbligo per i servizi sanitari, per l’organizzazione della sanità. Non si può negare l’esistenza della malattia mentale ma bisogna trovare un modo per conviverci senza essere esclusi dalla comunità e privati dei diritti fondamentali. I matti ne sono titolari come tutti gli uomini e le donne. Quello che è accaduto a Trieste è una storia senza fine. “Abbiamo imparato e dimostrato che prendersi cura significa incontrare l’altro, la sua singolarità, e tessere un vestito su misura. Uscire, dunque, dalla biologia per arrivare alla biografia”. In altre parole, mettere la persona al centro. Pensare a una società dove tutti si facciano carico dei più fragili. “46 anni dopo, però, come si può pensare che questa legge possa risolvere il problema della salute mentale con lo smantellamento del servizio pubblico a cui stiamo assistendo?”. Basaglia, in fondo, è stato profetico in questo. In una conferenza a Rio de Janeiro, nel 1979, dice: “Magari i manicomi torneranno a essere chiusi e più chiusi di prima, ma noi abbiamo dimostrato che è possibile affrontare la malattia in un altro modo”.
IL MEDICO DEI MATTI
Basaglia era nato a Venezia, l’11 marzo 1924. Una famiglia benestante la sua. Frequenta il liceo classico “Foscarini” e poi, nel 1943, si iscrive alla facoltà di medicina a Padova. È antifascista e raggiunge i partigiani in montagna ma l’anno dopo è arrestato. In carcere resterà fino alla fine della guerra. Nel 1949 si laurea e inizia a frequentare la clinica delle malattie nervose e mentali della città, dove lavora fino al 1961. Nel 1953 si sposa con Franca Ongaro, anche lei protagonista di quel movimento che rivendica l’umanizzazione della psichiatria. Insieme danno vita all’associazione Psichiatria Democratica (nel 1973). Tredici anni dopo la laurea, diventa direttore del manicomio di Gorizia. Per il medico umanista, che mischia psichiatria e filosofia, è meglio pensare a una sistemazione in provincia. Quando per la prima volta varca la soglia di quell’ospedale ha la stessa sensazione vissuta in carcere. Franco Basaglia pubblica articoli. Scrive libri. Racconta il cambiamento necessario. Nel 1967 esce Che cos’è la psichiatria. Nel 1968 L’istituzione negata. Rapporto da un ospedale psichiatrico diventa un bestseller e vince il Premio Viareggio. Nel 1970 lascia Gorizia e va a dirigere l’ospedale psichiatrico di Colorno, in provincia di Parma. Continua a lavorare in direzione ostinata e contraria perché “si può assistere la persona folle in un altro modo”. Nell’estate del 1971 vince il concorso per la direzione dell’ospedale psichiatrico di Trieste. Il presidente della Provincia Michele Zanetti appoggia il suo progetto di cambiamento e così la città fa da apripista, in Italia e nel mondo, a un processo radicale di cambiamento. Pochi anni dopo, tra il 1975 e il 1976, vengono aperti i primi servizi territoriali di cura. Prima, dunque, della legge 180/78 che porta il suo nome. Franco Basaglia muore all’età di 56 anni, il 29 agosto 1980, per un tumore cerebrale. L’anno prima si era trasferito a Roma per coordinare i servizi psichiatrici della Regione Lazio. La moglie, che aveva seguito molto da vicino le esperienze di Gorizia e Trieste, seguirà da senatrice della Sinistra indipendente l’attività legislativa sulla riforma psichiatrica.