ILVA, l’incubo di Taranto

Poche realtà come quella dell’ex Ilva raccontano il fallimento della politica industriale del nostro Paese e il dramma quotidiano che vive soprattutto il Meridione d’Italia, soffocato tra la mancanza di lavoro e le devastanti conseguenze dell’impatto ambientale del lavoro stesso. Ora, all’apice dell’ennesima crisi, sembra non esserci altra via d’uscita che superare la contrapposizione tra pubblico e privato. Tra le pagine di Prisma (n. 61) un’analisi approfondita da interviste e inchieste sul campo delle cause del “modello Taranto”, delle conseguenze e delle possibili vie d’uscita

Sembra non esserci via d’uscita per Acciaierie d’Italia, l’impianto siderurgico nato dalle ceneri dell’ex Ilva di Taranto: se vuole continuare a produrre, lo deve fare inquinando meno e riducendo l’impatto della produzione sulla salute dei tarantini. L’Italia, con oltre 21 milioni di tonnellate (Mt) nel 2022, è il secondo Paese europeo, dopo la Germania, per produzione siderurgica. Il settore impiega complessivamente circa 70mila addetti per una produzione composta all’80% di acciaio secondario, prodotto cioè dalla fusione di rottami ferrosi nei forni elettrici, e 20% di acciaio primario cui l’impianto di Taranto è l’unico stabilimento. L’acciaio primario è il solo materiale utilizzabile per determinate applicazioni (automotive, costruzioni e alimentari) e per assicurare la disponibilità di rottami per le aziende che lavorano l’acciaio da riciclo e che per il 73% dipendono dal mercato nazionale. Ma la sua produzione è quella più inquinante dato che si realizza tramite il ciclo integrale con altoforno, utilizzando minerale ferroso e carbone come materie prime. La Federazione imprese siderurgiche italiane (Federacciai), di cui fa parte anche Acciaierie d’Italia, punta a una riconversione dell’intero settore per poter raggiungere gli obiettivi del Fit for 55, il pacchetto di riforme ambientali e sociali promosse dalla Commissione europea. Detta così, quindi, parrebbe che l’unica soluzione sia quella di abbandonare la produzione d’acciaio. Non è però d’accordo Alex Sorokin, ingegnere e consulente energetico internazionale: “L’acciaio è un materiale chiave per l’economia europea e in un momento come l’attuale, nel quale l’asse produttivo dell’industria si sta spostando verso i Paesi asiatici, abbandonarlo sarebbe una scelta sbagliata”. Per Sorokin, “l’unica strada percorribile è quella che porta all’abbandono della tecnologia basata sul carbone per abbracciare quella legata al gas. Ma dobbiamo avere chiaro che la transizione è un processo pesante. Non ci sono alternative. Altrimenti Taranto rischia seriamente di chiudere”. Il rilancio dell’ex Ilva è un evento che si attende dal 2012, da quando la magistratura tarantina aveva ordinato il sequestro dell’impianto in seguito all’indagine che aveva portato alla condanna in primo grado di 26 persone tra dirigenti, manager e politici per associazione a delinquere finalizzata al disastro ambientale, all’avvelenamento di sostanze alimentari e all’omissione dolosa di cautele sul luogo di lavoro. Come documentato di recente pure da Peacelink, non esiste ancora un progetto per la decarbonizzazione totale. Finora si è sempre ragionato di una produzione mista, con un forno elettrico accanto agli altoforni, i grandi impianti usati nelle acciaierie per produrre ghisa e acciaio. La produzione mista è quella sostenuta dal presidente di Federacciai Antonio Gozzi. Secondo il manager, la soluzione sarebbe quella di “salvare con un revamping abbordabile dal punto di vista economico gli altiforni minori di Taranto, l’1, il 2 e il 4 e utilizzarli fino al 2029 con la loro quota di CO2 e nel contempo realizzare due impianti collegati a forni elettrici ad arco sommerso”. Allo stato attuale, degli originari cinque altiforni ne è attivo soltanto uno, il numero 4. Gli altri hanno interrotto la produzione per interventi di manutenzione, resi necessari per il deterioramento della struttura o per il loro eccessivo impatto ambientale. Spendere soldi per ristrutturare una tecnologia vetusta – riprende Sorokin – mi sembra una scelta sbagliata e poco lungimirante. Tanto vale investire i soldi per un impianto a gas. E non è detto che questa seconda scelta sia più cara della prima”.

LA RISPOSTA È DRI
Nell’agosto del 2022, il think tank per il clima Ecco ha pubblicato uno studio nel quale veniva individuata nella tecnologia DRI (Direct Reduced Iron) la risposta al problema dell’inquinamento. DRI prevede l’uso di un materiale ferroso ridotto (preridotto) attraverso l’utilizzo di energie rinnovabili, da utilizzare poi nei forni elettrici, due in questo caso, per la produzione di circa 2,5 milioni di tonnellate ciascuno. Il preridotto ha una serie di vantaggi dal punto di vista dell’impatto sulle emissioni climalteranti: può essere caricato negli altiforni per diminuire il consumo di carbone, oppure nei forni elettrici in sostituzione del rottame, con il vantaggio di non avere gli stessi elementi chimici inquinanti di quest’ultimo. Per abbattere ancora di più le emissioni, all’alimentazione a gas dovrebbe sostituirsi quella a idrogeno verde. La tecnologia DRI è già realtà in diverse parti del mondo come l’India (28 milioni di tonnellate/anno di capacità DRI) e l’Iran (26 Mt/anno di capacità DRI). In Europa nuovi impianti sono in costruzione in diversi Stati. Sono già quattro gli esempi europei cui è possibile ispirarsi: la Svezia, la Finlandia, la Germania e l’Austria dove, con il progetto H2FUTURE finanziato dall’Unione europea, è stato costruito a Linz quello che attualmente è il più grande impianto pilota per la produzione di idrogeno per l’industria siderurgica.

LAVORO O SALUTE
Accanto alla minaccia ambientale, Taranto ha convissuto con il ricatto occupazionale. Nessuno, ad oggi, nasconde i rischi legati alla decarbonizzazione anche se, come ricorda lo stesso Sorokin, “dobbiamo considerare prima di tutto che l’eventuale passaggio dal vecchio al nuovo impianto comporta il coinvolgimento di molti lavoratori. Quello occupazionale, quindi, non sarebbe un problema immediato. Lo diventerebbe solo quando il nuovo impianto entrerà in esercizio. Nel frattempo, però, avremmo sviluppato a livello nazionale le fonti rinnovabili che comportano una triplicazione di lavoratori per ogni terawattora di produzione fossile sostituita da energia pulita. Per Taranto – conclude Sorokin – la fonte individuata è l’eolico e l’eolico offshore, con turbine il cui diametro è di 250 metri. Escluse le pale, è tutto acciaio, per cui esisterà sempre il fabbisogno di personale capace di gestirlo”. 

COME SI PRODUCE L’ACCIAIO

Il complesso siderurgico di Taranto sorge su una superficie di circa 15 milioni di metri quadrati e costituisce il maggior complesso industriale per la lavorazione dell’acciaio in Italia e uno dei più grandi in Europa. Qui avviene la prima trasformazione dei minerali di ferro in prodotti primari (“area a caldo”). Le bramme prodotte (lingotti di acciaio solido a forma di parallelepipedo) in quest’area alimentano poi tutti gli impianti a valle dello stesso stabilimento (“area a freddo”). Oggi Taranto è l’unico stabilimento siderurgico in Italia a ciclo integrale, capace di produrre acciaio partendo dalle materie prime: il minerale di ferro e il carbon fossile. Nello stabilimento di Taranto avviene la trasformazione fisica delle materie prime in ghisa liquida. È la prima fase del ciclo siderurgico e precede quella di produzione dell’acciaio. Nella seconda fase, la ghisa viene trattata e affinata nei convertitori a ossigeno delle due acciaierie del sito pugliese che trasformano la ghisa in acciaio. A valle della produzione di acciaio sotto forma di bramme trovano spazio le fasi dedicate alla produzione del prodotto finito. I processi per produrre acciaio sono essenzialmente due: da ciclo integrale o da altoforno (acciaio primario) e da forno elettrico. Nel primo caso, in cui possono essere utilizzati rottami di acciaio fino al 30%, la materia prima è il minerale ferroso estratto dalle miniere. Dall’acciaio così ottenuto si ricavano principalmente semilavorati “piani”: laminati sotto forma di rotoli (coil) per la realizzazione di treni, veicoli, navi, elettrodomestici, imballaggi e tubi. Nel secondo caso, invece, la materia prima è costituita al 100% da rottami e si ottengono principalmente semilavorati “piani e lunghi” quali rotaie, tubi, travi e tondini per l’edilizia.

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