In due occasioni, di recente, mi sono imbattuto nel ricorso alla figura retorica del paradosso per cogliere il senso di ineluttabilità del presente: Che cosa ci aspetta quando non c’è futuro?, titolo dell’ultimo saggio del filosofo marxista Slavoj Žižek, e “una salus victis, nullam sperare salutem” (la sola salvezza per i vinti, non sperare nella salvezza), l’esametro dell’Eneide in cui Enea incita a continuare la lotta mentre Troia brucia.
Sembrano indicare che, quando il (buon) senso collettivo è sconfitto dal cieco opportunismo, si deve superare la logica. I libri sapienziali sono infatti ricchi di paradossi: dalle parabole evangeliche che lodano amministratori disonesti e pastori che abbandonano greggi per una pecora, ai koan Zen. Il paradosso fa emergere crepe salutari nell’apparente solidità del pensiero ufficiale, spinge a pensare oltre gli schemi fino a trovarne radicalmente nuovi. Il paradosso scuote e si oppone a chi cerca di addormentare lo spirito critico. Mentre il Potus continuava a ripetere: “We’ve done an amazing job!”, pensavo: “Solo l’Occidente non conosce la Storia!”.
A poca distanza dalla diga del Vajont, sul versante friulano scorre il Cellina. Negli anni Cinquanta, l’infame Sade sbarrò anche quel corpo idrico per una centrale idroelettrica. L’invaso, divenuto il lago di Barcis in una splendida cornice, è oggi interrato per due terzi da ghiaia e depositi così come gli alvei del Cellina e dei sui affluenti a monte. Ciò provoca allagamenti pericolosi e ha ridotto la capacità dell’invaso elettroirriguo. Gli obblighi di sghiaiamento da parte del concessionario non furono mai esplicitati né pretesi e oggi farlo è opera ciclopica. All’epoca si faceva violenza all’ambiente senza pensare al futuro, le dighe erano fatte per durare una cinquantina d’anni e poi chi vivrà vedrà.
Ebbene, quando non c’è futuro ecco sorgere un comitato di paesani determinato a richiamare concessionari e politica alle loro responsabilità. Un radicale cambiamento culturale è in atto, si ragiona in termini di sostenibilità perché alla coscienza collettiva parlano anche le generazioni che verranno!
Dopo la sentenza avversa del Tar, sembrava non esserci futuro per le 22mila cittadine e cittadini che con una petizione alla Regione fermarono la costruzione di una mega acciaieria sulla laguna di Marano in Friuli Venezia Giulia. La multinazionale proponente avrebbe ottenuto i nomi per adire penalmente e civilmente per il fallimento del progetto contro di loro. Quasi da solo, avevo promosso al Consiglio di Stato un ricorso per tutelarne la riservatezza. Ebbene, il ricorso è stato accolto. Il Consiglio ha sentenziato che la firma in una petizione è “atto politico” e pertanto è “dato sensibile” che può essere reso pubblico solamente con l’esplicito consenso dell’interessato. Questo pronunciamento farà giurisprudenza irrobustendo il diritto al dissenso che sembrava fino all’ultimo calpestato.
C’è un giudice a Berlino!