L’ascesa della rotta artica

C’è un luogo da cui si guarda con molta attenzione a quello che sta succedendo nel Mar Rosso, dove i ribelli yemeniti houthi hanno mandato in crisi il commercio globale armati di droni e missili. È il porto di Murmansk, in Russia, 125 chilometri a nord del Circolo Polare Artico, via di accesso dall’Europa per la Northern Sea Route. L’ascesa della rotta artica per il commercio è un perfetto laboratorio sugli effetti simultanei della “policrisi”: il conflitto in Medio Oriente sta soffocando il passaggio nello stretto di Bab el-Mandeb, tra Yemen e Gibuti, mentre il riscaldamento globale sta spalancando la via alternativa che passa da nord connettendo i mari artici, da Murmansk fino allo stretto di Bering. Dal canale di Suez passa il 12% del commercio mondiale, 1 trilione di dollari di merci all’anno. È un collo di bottiglia da cui dipende il funzionamento dell’economia mondiale. Ce ne siamo accorti durante l’incidente della Ever Given del 2021 e di nuovo con gli attacchi dei pirati yemeniti che hanno fatto crollare il passaggio di navi del 40%. Al momento, la rotta alternativa più praticata dall’Asia all’Europa è quella lunghissima che porta a circumnavigare l’Africa, ma sempre più operatori ora guardano verso nord. La crisi climatica sta aprendo la strada. In Artico, il riscaldamento globale ha un impatto tre volte superiore che sul resto del pianeta, per via del cosiddetto meccanismo di “amplificazione artica”: più ghiaccio si perde, più il mare trattiene calore. Più trattiene calore, più perde ghiaccio. La riduzione di copertura estiva va oggi al ritmo dell’1,6% all’anno. Nel 2020 il ghiaccio era la metà di quanto ce n’era nel 1979. La fusione dei ghiacci artici ha allungato la stagione navigabile fino a un record di 88 giorni e secondo l’Accademia russa delle scienze si potrebbe arrivare fino a 6 mesi e mezzo nel corso di questo secolo. Le proiezioni più pessimistiche danno un’estate interamente libera dal ghiaccio già negli anni Quaranta o Cinquanta. La via artica ha la geografia dalla sua parte: è più breve di qualsiasi altra rotta commerciale via mare. Un cargo da Dalian, in Cina, a Rotterdam, in Olanda, ci mette 33 giorni passando a nord, contro i 48 giorni via Suez, al netto delle tensioni militari e geopolitiche. Gli operatori cargo se ne sono accorti: nel 2013 il traffico marittimo nella Northern Sea Route era di 2,8 milioni di tonnellate all’anno per passare a 10,7 milioni nel 2017. Nel 2023 è stato di 36,2 milioni. L’obiettivo è di arrivare a 200 milioni di tonnellate per il 2030. Per la Russia di Putin è un’opportunità geopolitica enorme: nel 2022, in piena invasione dell’Ucraina, ha messo in cantiere un piano di sviluppo decennale di infrastrutture e porti da 29 miliardi di dollari. Uno degli investimenti principali è nelle navi rompighiaccio: quest’anno entra in servizio la Yakutia, 173 metri a propulsione nucleare, in grado di spaccare ghiaccio spesso fino a tre metri. La prossima della serie, la Chukotka, inizierà a navigare nel 2026; poi sarà il turno della Rossiya, lunga 209 metri. L’alleato in questi progetti di sviluppo è la Cina, alla ricerca di vie più veloci per accedere ai mercati occidentali aggirando il cosiddetto “dilemma di Malacca”, espressione coniata dal presidente Hu Jintao nel 2003. Da questa via d’acqua che separa Indonesia e Malesia passano il 90% delle esportazioni cinesi e l’80% delle importazioni di petrolio, 6,5 milioni di barili all’anno. Un blocco da quelle parti sarebbe una catastrofe economica. È per questo che Putin e il presidente cinese Xi Jinping lavorano all’integrazione tra la via artica e la Via della seta. Cina e Russia stanno progettando anche una lunga rete di cavi in fibra ottica, oltre 10mila chilometri sotto l’Artico per migliorare la connettività e facilitare la navigazione. La via artica ha anche degli imprevisti vantaggi climatici: con una rotta più breve (13mila contro 20mila chilometri via Suez) si riducono i consumi di carburante e quindi le emissioni di gas serra. Però non sono da sottovalutare i possibili effetti ecologici conseguenti all’aumento del traffico marittimo in un ecosistema così delicato, soprattutto perché gran parte di quel commercio navigherebbe su navi petroliere e gasiere.
È ancora viva la memoria della catastrofe della petroliera Exxon Valdez in Alaska del 1989. E c’è anche un effetto nuovo e imprevisto: secondo una ricerca pubblicata quest’anno su Geophysical Research Letters, la fusione dei ghiacci in Artico fa aumentare considerevolmente la nebbia lungo la Northern Sea Route. Un elemento che allunga i tempi di percorrenza e ingrandisce il rischio di incidenti e collisioni con iceberg.

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